Più di una volta, riferendosi al sapere o, più precisamente, ai saperi, Lacan fa l’esempio del coniglio che l’illusionista ha prima messo nel cilindro per poterlo estrarre dopo.
Niente di male, dopo tutto è un’obiezione prettamente umanistica e “creazionista” fatta allo scetticismo e al realismo della disperazione, a quella filosofia di Don Abbondio per la quale “se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare”. Come fa a sapere che non ce l’ha? Chi lo decide?
Lacan diffidava dell’umanesimo automatico, evolutivo e necessario che si realizza, non si sa perché né da dove, in un Io necessariamente unitario, definito nell’identità e pertanto fatto direttamente per la morte.
Mentre perfino la stessa morte diventa un’invenzione culturale, da trattare come tale, una incongruenza per quell’umanesimo contingente che si realizza, se si realizza, nel Soggetto come dialogo con l’Altro che è in lui e per lui, fosse anche il famoso Io (che, trasmigrando dal corpo, fa presto a diventare tu), e con l’altro soggetto che suppone essere fuori di lui.
Non ci si sottrae all’onere di doversi inventare il senso dell’esistenza (cioè il sesso che nel due smentisce sia lo zero che l’uno: di più, in quanto sapere, non c’è niente e il tre è già complessità…), onere cui il tossicodipendente e il depresso vogliono sottrarsi.
In generale a questo proposito l’umanità ha potuto trovare scappatoie e alibi in qualche rivelazione: è un normale, in quanto intermittente, “desiderio di non sapere”, come sa bene l’analista che ha la seccatura di dover reinventare sempre il sapere psicanalitico, nel solco tradizionale dell’invenzione, il coniglio, non della scoperta, dell’inconscio da parte di Freud. Una tra altre possibili obiezioni pratiche, solo pratiche, al determinismo.