Nelle favole e in qualche tradizione esoterica si vedono situazioni ingarbugliate della vita risolversi miracolosamente in virtù di ciò che Lacan chiamerebbe un atto etico. Un miracolo può derivare da quell’atto per cui un soggetto decide di tagliar corto su un dilemma del suo desiderio e di godere nel porre la responsabilità e l’azzardo della sua azione al posto delle conseguenze, l’atto come un’”oggetto” (tra virgolette perché l’oggetto è in realtà un significato) da conseguire nel momento in cui l’azione coinvolge qualcun altro. Tipicità, sia detto per inciso, dell’atto eroico.
L’oggetto del desiderio è metonimico, ci dice Lacan. Ci fissiamo ora su un oggetto ora su un altro, raggiungimenti che supponiamo possano colmare l’incolmabile, il vuoto di significati che il linguaggio ha scavato nel Reale distaccato nel nostro corpo (distaccato come si dice di una succursale), ma l’oggetto, lo strumento, il significato della soddisfazione non c’è là dove abbiamo immaginato di toccarlo con mano: si è involato tra i significanti perdendo peso di senso.
Quella cosa che pensiamo possa soddisfarci e che perciò vale incommensurabilmente, ci deluderà prima o poi, ma, indipendentemente da questo, può accaderci di prevenire quel momento per circostanze esterne oppure interne tra coscienza e inconscio: avviene quando si fa strada l’altra verità del desiderio che non c’entra con quell’oggetto particolare né con la sua evanescenza, la verità che il desiderio è desiderio dell’Altro e che ne evoca la mancanza.
La mancanza ci accomuna come soggetti, ma il godimento è extra, del Reale che “non manca di nulla”, può prodursi negli eventi che siamo in grado di provocare spostando l’investimento dall’oggetto sul soggetto (indefinito) con migliori ritorni e non solo per noi, anche se non del tutto prevedibili. Si può aggirare la pulsione che, a differenza degli istinti, non ha altra meta che la Cosa primordiale, l’impossibile Uno, completo, consistente e autoerotico: se ne salverà la forza propulsiva cieca in vista di mete adatte al “due” dell’Io e dell’Altro, entrambi inconsistenti se non nell’Immaginario e intervallati nella “mancanza”, con tutta la portata di desiderio e perciò di senso, tra eventi di corpo, saperi, intese su verità.
L’atto etico non chiede di essere accolto e vidimato tra altri scambi sociali, si giustifica da sé, non vuole significare niente, non “fa sembiante” ammantandosi di rappresentazioni immaginarie, è un moto d’animo energico, più simile a una lettera tutta da decifrare che precorre il simbolo essendone il supporto nel Reale. E’ desiderio senza oggetto: che qualcosa accada come suo effetto.
Lettera d’amore che potremmo ritrovare per esempio in ogni pratico intervento materno sul bambino o sulla bambina, che non mancherà di provocare alla lunga il miracolo del soggetto e dell’umanizzazione sulla via della significazione simbolica.
La settimana scorsa ho visto ben due film sul tema di come possono cambiare le cose della vita quando l’affetto del desiderio trova la via dell’azione passando dall’oggetto al soggetto.
Il primo è “Miracolo a Le Havre” una favola sublime in cui il beau geste che un dignitoso lustrascarpe attua nei confronti di un ragazzo migrante in fuga, per di più nei giorni in cui la moglie è all’ospedale malata di cancro, sarà la “lettera” che otterrà la di lei guarigione. Lo stile coniuga espressionismo e commosso neorealismo così magistralmente da rendere credibile il miracolo. Anche quello meno vistoso per cui un sentimento di tenerezza prevale in un rigido commissario di polizia comandato di igienizzare quei recessi sottoproletari dimenticati nell’edificio borghese nei quali ancora alligna la muffa benevola e intollerabile dei piccoli godimenti imprevisti e gratuiti.
L’altro film è “La bicicletta verde”, un apologo complesso sull’autonomia del desiderio e sui suoi risvolti psicologici in una madre e una figlia forse appena adolescente in Arabia Saudita ai nostri giorni.
Wadjda ha dieci anni e quando va a scuola deve portare il velo, è spesso in competizione con l’amichetto coetaneo Abdullah, ben più libero di lei. Vorrebbe competere con lui anche in una gara in bicicletta, ma non ne possiede una, e comunque le sarebbe proibito usarla in pubblico. Elegge una bicicletta verde in vendita allo spaccio del paese a oggetto esclusivo del suo desiderio, ben decisa a non cedere su di esso. E’ un tipetto tosto che intrattiene con il suo desiderio un rapporto tutt’altro che nevrotico e inane, mostrandosi invece capace di ricorrere energicamente a tutti mezzi disponibili e meno disponibili per conseguire il suo scopo. La madre disapprova quella che giudica una mania (poco ci manca, in effetti) ma ha altro cui pensare, perché il marito, pur mostrandosi svagatamente affettuoso sia con Wadjda che con lei, ha deciso di sposare una seconda moglie che possa dargli il figlio maschio che non è arrivato. Immaginando di riconquistarlo e difendersi dalla rivale che presto le arriverà in casa, la donna elegge come talismano e oggetto metonimico del suo desiderio un abito rosso molto sexy.
Noi del pubblico siamo con Wadjda, accettando di buon grado le sue trasgressioni fatte all’insegna dello scopo che giustifica i mezzi: ha il fascino e il carisma dell’avventuriero che esibisce il senso della vita nel desiderio e nella sua legge soggettiva.
Inopinatamente l’intera somma necessaria per venire in possesso della bicicletta le viene a portata di mano quando la scuola indice un concorso per la migliore conoscenza del Corano: la bambina vi si butta con tutta la sua pervicacia e vince il primo premio di 1.000 Riyal, sennonché al momento della premiazione, quando la preside, un’ipocrita integralista, le chiede come impiegherà la somma, lei rivela ingenuamente e trionfante la verità. Apriti cielo d’Allah! Il premio viene confiscato e devoluto alla causa dei “fratelli palestinesi”.
Pian piano si fa strada in Wadjda la verità che l’oggetto è simbolo del suo orgoglio di donna privo di prospettive, tanto quanto può esserlo l’abito rosso per la madre. Della frustrazione si fa una ragione. Nel salotto di casa è appeso in bella mostra l’albero genealogico della famiglia che ovviamente mette in evidenza il ramo maschile senza che neanche vi compaia lei, l’ultima nata: vi appiccica un foglietto con il suo nome, ma al mattino lo trova accartocciato.
Le due donne guardano pensose dal terrazzo di casa nel cortile la festa di fidanzamento del capofamiglia ed ecco che la figlia assume il piglio di una sorella della madre e perentoriamente la invita a comprarsi il vestito rosso potendo contribuire con i risparmi rimasti dalla sua avventura, ma qualcosa nel frattempo deve essersi mosso nella coscienza della donna che le rivela il definitivo atto etico che incrocia la solidarietà della figlia: “Non posso, ho speso i soldi e ti ho comprato la bicicletta!”.
Nella scena finale, come nelle favole, Wadjda in sella alla bicicletta supera Abdullah e, con il suo niqab al vento, pedala fino quasi ad alzarsi da terra.
La scelta cruciale che può sparigliare ogni cosa è quando in una rinuncia il puro desiderio dell’Altro, qualsiasi oggetto ne appaia a pretesto, appare come metafora dell’eterna mancanza, il nostro oggetto più autentico in quanto sottratto alla metonimia e al calcolo delle probabilità.
Naturalmente, se parliamo di cinema, il più famoso atto etico esibito in cinematografia è in “Casablanca”, la rinuncia di Rick a Ilsa, rinuncia che per bocca del marito di lei, Laszlo, diventa addirittura la vittoria degli Alleati nella guerra. Fa veramente impressione che il film sia prodotto nel 1942 e la narrazione riguardi un tempo anteriore se pur di poco.