11. UNIVERSALE

E’ evidente che la Destra politica sia un po’ sguarnita nella disponibilità di intellettualità, ovvero che latiti la figura dell’”intellettuale di destra”, tanto che si è creata nell’immaginario, per rendere ragione della strana dissimmetria, la figura dell’”intellettuale di sinistra”, di fatto esposta a narrazioni negative. Di fatto, come tutto ciò che appare deludente per assenza del suo termine di confronto: siamo tutti abituati a pretendere che ogni definizione indichi la negazione della sua negazione. It’s dialectics, stupid!

 Questa latitanza, che peraltro non consente alla Destra di egemonizzare del tutto e facilmente la borghesia su un piano ideologico o ideale, si può attribuire a fattori storici, ma credo che sia da mettere in relazione con almeno due aspetti puramente logici e legati tra loro. E’ uno dei casi in cui la struttura comunicativa prevale sull’intenzione.

 Non è pensabile l’esistenza di un intellettuale, uno che traduce in parole gli aspetti del mondo, senza attribuire a costui una particolare attitudine alla critica in senso generico, cioè una tendenza ad appuntare il suo interesse su ciò che fa problema, su ciò che gli sembra non debba andare immediatamente liscio, ovvero a ciò che immagina possa creare qualche perplessità in un suo interlocutore immaginario.

 L’intellettuale attivo socialmente in quanto tale, che si esprime pubblicamente soprattutto scrivendo, nel farlo affida il suo pensiero ai mezzi che lo promulghino anche in sua assenza, rinunciando quindi al controllo completo sull’effetto che fa: mettendo in conto di poter avere un lettore che ecceda il suo di elezione cioè il target, come dicono oggi, non ha la possibilità di replicare e correggere in tempo reale il messaggio come è possibile nel parlato. Allora, se anche si propone, come spesso accade, di lavorare giudiziosamente su commissione di chi può commissionare, di un padrone, per dire le cose come stanno, ne tradirà sempre un poco le intenzioni sostanzialmente promozionali immettendo nell’argomentazione un che di esagerato a difesa di quelle intenzioni: qualche specie di excusatio non petita.

 E’ una debolezza insita e originaria nel suo ruolo che il committente, principe, editore o altro detentore di privilegi, non gli perdonerà. Il dubbio, con il suo rovescio di verità, è il peggior nemico del potere e per farlo apparire all’orizzonte basta un niente di lateralità critica. O un troppo di centralità.

 L’intellettuale può non essere progressista o essere reazionario in emissione del messaggio, ma è quasi sempre un traditore oggettivo delle istanze conservatrici nella ricezione del lettore sempre attento al “perché si dice” e all’”interdetto” che balugina nello spazio tra le righe; dopotutto a livello del senso ci sentiamo destinatari responsabili di qualsiasi cosa leggiamo.

 D’altra parte, è proprio quello spontaneo approccio a un pubblico più vasto di quello strettamente preso di mira, il fatto di aprire l’angolo del territorio simbolico in cui si scelgono le parole, cioè il fatto di scrivere per tutti e per nessuno oltre che per qualcuno, che rende credibile la figura dell’intellettuale. E rende inevitabile per ogni scritto non esclusivamente tecnico un effetto collaterale che Wundt chiamerebbe “eterogeneità del fine” e Hegel “astuzia della ragione”.

 Di che si tratta se non di quell’universalismo che dagli Stoici in poi è diventato pian piano la marca e la condizione di una scelta e di un pensiero di sinistra? Quel pensiero che, mentre alla domanda retorica “A chi (questa o quella cosa)?” il fascista risponde “A noi!”, fa invece rispondere: “A tutti!”. E’ la condizione necessaria, ancorché non voluta e non sufficiente, dell’essere intellettuale.

 Perfino in tutte le fosche invettive di Celine Destouches serpeggia, malgré sois, come un contraccolpo destinato a restare implicito, il dubbio universalistico, il dubbio che non esista per lui un interlocutore degno se non sperso tra tutti e nessuno; nel suo caso di artista, cioè nel caso del suo stile, questa apertura è data dai tre puntini in cui così spesso svanisce la sua “petite musique”.

 E’ l’universalismo e solo l’universalismo che autorizza un intellettuale e un artista a dirsi tale su un piano giuridico, ideale, metaforico e, che lo voglia o meno, un po’ di sinistra.

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