La regola fondamentale della psicanalisi di dire immediatamente quello che passa per la testa, di evitare per quanto possibile di operare il controllo su ciò che si dice, cui corrisponderà il famoso “ascolto uniformemente sospeso” dell’analista, non è definita fondamentale a caso: se c’è ci può essere psicanalisi vera, se invece non vi presiede come regola e preliminare convenzione si tratterà inevitabilmente di falsa psicanalisi.
Ma, fatta salva la sintassi, da cosa sarebbe libera la libera associazione se non dalla retorica dell’Io intenta a puntellare un senso di sé plausibile per l’Altro che dovrebbe vidimarlo? Bene, non esiste un senso di sé che non coincida con il senso in generale, quello del mondo (freudianamente sessuale…), la cui qualità è di poter vacillare in ogni momento. Questo il soggetto umano non lo vuole, c’è un limite alla devastazione dell’Io che si disperde nella difficoltà di immettersi in un senso soddisfacente. L’inimicizia per il caos prevale sempre, sia pure sospesa e sprovvista di parole efficaci per destreggiarsi tra l’improbabilità del sapere assoluto e l’insensato indicibile che, in quanto tale, non dovrebbe accedere all’esistenza. Ma vi accede e prende il nome di libertà.
Fare entrare in gioco il non-senso come impossibilità sarà sempre condizione necessaria (ma non sufficiente) dell’analisi. Aggirando per quanto possibile l’interiore dialettica che difende la fragile causa di un Io ideale, sarà più facile che l’interpretazione proceda nel campo di ciò che parla senza sapere esattamente quello che dice, il soggetto infine ridotto ai suoi significanti senza ancora pregiudizio per un senso, soggetto invece da produrre come e in quanto posizionato e rappresentato tra di essi. Più causa che effetto del senso, come ogni significante. Il che è il meglio che ci si possa attendere per salvaguardare l’efficacia del procedimento che non deve sottostare agli aggiramenti, reificazioni e razionalizzazioni dei discorsi correnti nella dimensione del “non volerne sapere” (dell’inconscio). Dimensione che diremmo di veglia per distinguerla dal sogno, avventatamente però, dato che l’Immaginario più o meno traumatico, l’inconscio e i sintomi vi fanno altrettanto da padroni, solo un po’ più discutibili essendo “venuti alla luce” della dialettica, grande specialità dell’Io.
Il paradosso è chiaro: in psicoanalisi la regola in cui il dire si affida al caos funziona perché fallisce.
La regola fondamentale può sembrare solo un metodo utile alla pratica dell’interpretazione, cogliere metafore e metonimie archetipiche nelle più labili associazioni di parole, questo era per Jung, invece in essa regola prendono vita proprio i quattro concetti fondamentali della psicanalisi che riguardano più il soggetto che l’Io, enucleati da un Lacan ancora esegeta teorico di Freud: l’inconscio come enigmatico ma ineludibile discorso dell’Altro, il transfert che lo vela, la ripetizione che lo svela, la pulsione come motore del gioco. È evidente che nella formazione di questi meccanismi giocano quei fattori energici e un po’ mitici che Freud chiamò libido ed Eros, fattori trascurabili nella visione di Jung.
Dire concetti è dire poco, quando ogni altro aspetto del mondo, ogni significato, può rivelarsi come fatto apposta per distrarci dalla consapevolezza di essi. Non dimentichiamo che la psicanalisi nasce dal non saper rendere ragione di cose apparentemente futili e apparentemente casuali che tutti sperimentiamo ogni giorno, dimenticanze, lapsus, inceppamenti della parola, rappresentazioni che irrompono moleste o triviali.
Siamo realisti, rimanga indecidibile se nel nostro tentativo di interpretare tutto ciò ne scopriamo il senso oppure lo produciamo. Un’oscillazione immaginaria che ogni analizzante ben conosce a livello di interpretazione.
Quanto appare velleitario e intellettualistico il decostruzionismo di Nietzsche che si può ridurre all’aforisma per cui non esisterebbero fatti ma solo interpretazioni, in confronto a questo esperimento in corpore vili che rende ragione di un destino umano in cui possono coesistere fato e libertà!