50. MATERIALISMO

 Nei secoli in cui si attua il passaggio dal teocentrismo medievale, reputato oscurantista, verso la modernità che trova la sua ideologia nell’Illuminismo, compare l’uomo progressista come colui che dà sempre maggior peso al metodo induttivo, osservativo e sperimentale, contrapponendolo a quello deduttivo, referente qualche autorità o qualche principio “naturale” per incrementare il sapere.

 Consentaneamente si forma l’idea che una visione materialistica delle cose del mondo sia più moderna di una spiritualista, superato un certo imbarazzo per l’invisibilità dell’energia. Invece oggi appare come un’idea decisamente d’antiquariato, alla luce della nostra modernità in cui si attua l’evanescenza delle sostanze stabili, che non possono più essere intese come causa di qualcosa ma solo come effetti di pure relazioni di complessità, faccende eminentemente immateriali.

 Tale evanescenza era stata prevista da Marx come un effetto del progressivo sostituirsi di un valore di scambio delle cose rispetto un loro valore d’uso, virtualità ed astrazione a prevalere su atto e concretezza, ma ancora non sapeva quanto sarebbe diventato totalitario il paradigma quantistico, l’algoritmo come fattore esplicatore dei fenomeni nel mondo o, per dirla con altre parole, la potenza euristica del puro ordine numerico. Una potenza che va al di là di qualsiasi platonismo nel suo farsi idea fondatrice di realtà qualora ci sia, come c’è quasi sempre, l’intesa tecnologica.

 Anche oggi una visione spiritualista delle cose suonerebbe come irrazionalista ma, giocoforza, il materialismo come ideologia progressista è sostituito dalla nozione di realismo.

 Il realismo moderno, dopo aver digerito il fatto che il fenomeno naturale soprattutto biologico dipende da una informazione, ordine che crea più ordine, qualcosa che, vivaddio, non è né materia né energia, qualcosa che nella complessità trae fondatezza solo a posteriori, per retroazione, trova nella statistica qualche consistenza cui appoggiarsi per tagliar corto e poter decidere realisticamente. La certezza operativa, tutto ciò che ci interessa da vicino, la “realtà”, è nel data set, ma nel big data è addirittura la verità. Mentre in verità ogni realismo, compreso quello moderno, consiste dopo tutto nel tentativo di dare sostanza allo zero o al punto euclideo, due faccende assiomatiche che, in quanto tali, ne rimarranno comunque prive. E’ curiosa e per me inspiegabile la tendenza moderna incrociata di sostanzializzare l’astratto e desostanzializzare il concreto.

 Tuttavia, la statistica in sé non è una novità, come calcolo delle probabilità matematizza l’antichissimo procedimento di pensare prima di agire, l’errore sta eventualmente nello scambiare la certezza empirica, in quanto tale relativa alla raccolta mirata dei dati da memorizzare, con verità solo in base a una pletora dei dati stessi. E di pensare che saper orientare l’azione abbia a che vedere con il sapere classicamente inteso, quello degli antichi filosofi che, dice Lacan, nulla ha a sua volta che vedere con la Scienza moderna. In questa, cassata la domanda del quod sit, resta quella del cur sit utilitarista.

 Più di trent’anni fa mi capitò di essere presente ad una lectio mirabilis pronunciata in inglese da Karl Popper presso il Centro di Fisica Teorica nella mia città e mi ricordo con che piglio il vecchietto cantore della modernità liberale difendesse la fondatezza (in sé indiscutibile) e l’inattaccabilità epistemologica delle affermazioni riferite a dati statistici. Disse tra l’altro che un’asserzione di probabilità non divarica certezza e verità ma le avvicina. Alas! Si dimenticò, almeno in quella circostanza, di accennare al fatto che ogni invenzione, ogni pensiero originale e ogni spunto per procedere alla “falsificazione”, da lui stesso teorizzata come fondamento scientifico (in sé liberale), trae origine, in quanto ad osservazioni, nelle estreme ali asintotiche di una curva normale, cioè da uno scarto irrilevante finché non venga rilevato.

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