“Tutte le famiglie felici sono simili, ma ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Il famoso incipit del romanzo di Tolstoj proprio per la sua perentorietà si presta alle più diverse interpretazioni e a deduzioni non immediatamente previste.
La prima considerazione da fare è che tutte le situazioni umane che, a vario titolo, possono essere definite felici, non danno molto adito a pensiero critico, non chiedono di essere analizzate né descritte più di tanto. Non solo risultano poco interessanti per uno scrittore, ma addirittura sembrano sfuggire alla coscienza di chi le vive. Per esempio, non ci accorgiamo di godere buona salute, in generale di stare bene, se non ex post oppure quando veniamo a contatto con la disgrazia di un altro. Per corollario, nella contemplazione dall’altrui disgrazia ma soprattutto nell’adoperarsi a soccorso si obliano i propri malesseri; addirittura si annullano, se è vero che le madri deportate nei lager non prendevano il raffreddore.
Le faccende della vita che funzionano bene, in fondo sembrano simili perché non abbiamo interesse ad osservarle attentamente, che altrimenti si scoprirebbe che ognuno, come ogni famiglia, se è felice è felice a modo suo. In questo caso, tuttavia, il termine felicità andrebbe sostituito con gaudio, un affetto espressivo, “joie de vivre” che entri come momento retorico particolare in una narrazione complessiva in cui vengono mediate e aggregate punte di soddisfazione ciclica a sorreggere il Lustprinzip freudiano in un quadro del tutto provvisorio, un po’ velleitario e artificioso di coscienza felice. Se si è contenti si può esserlo al pari degli altri, è lo scontento che ci rende diversi.
Dire simile vuol dire intercambiabile, tanto che nell’oggetto simile si riconosce una sola qualità, un residuo di interesse, il nostro, che, finché c’è, mantiene l’oggetto disponibile per la coscienza, se viene meno, quell’oggetto che era reputato indifferente in sé si rivela in verità indifferente per noi e perde attualità ed esistenza.
Sono le cose che non vanno del tutto lisce, in bilico tra il loro diritto e il loro rovescio, quelle che fanno differenza e coscienza. È la natura dei sembianti lacaniani.
Per Tolstoj famiglie felici sostanzialmente non esistono né oggettivamente né come coscienza di esserlo. La sua famiglia, stando a biografia, non di certo. In generale, la coscienza più o meno sensibile che l’autore condivide con qualche suo personaggio è automaticamente coscienza più o meno infelice, anche quando si tratta di esempi di idealità umana, perle rare come un Levin, “che aveva provato molte gioie e, quando non aveva pensato al significato della sua stessa esistenza, era stato felice”. Sta di fatto che i poeti, i romanzieri e i filosofi sono i testimoni esclusivi ed accurati, da che mondo è mondo, dello scontento e dell’infelicità umana: lo scontento innocente di Strepsiade rischia di diventare infelicità a contatto con Socrate nelle “Nuvole” di Aristofane, ma in fondo tutto è già avvenuto nella Genesi quando Eva e Adamo diventano due dannati intellettuali critici.
A quei testimoni andrebbero aggiunti gli psicanalisti, ma con una distinzione non da poco, in quanto, auscultando il sintomo, non attribuiscono un grande valore di verità, per così dire di filosofia morale, a dati riferiti di perdurante sofferenza morale, da intendere piuttosto come momentanea coscienza infelice che felicemente trova le parole per esprimersi. C’è alla base il vecchio Witz del bambino afasico fino ad età matura che ad un tratto, facendo gridare i genitori al miracolo, esclama: “Poco zucchero nel caffè!”, a significare che fino a quel momento tutto andava bene.
Per Freud una coscienza felice, ben che vada, cioè se si esclude il delirio stuporoso o maniacale, sarebbe alquanto improbabile, perché lo stato vitale che gli corrisponde è precisamente l’omeostasi, l’assenza di tensione psicofisica e quindi di attenzione. Una volta si spinse a dire che la normalità psichica per quanto concerne l’umore è quella di una moderata depressione.
Per Tolstoj come per tutti i narratori, la felicità non parla se non quando è eccessiva e per ciò stesso si smentisce; altrimenti è uno stato ingannevole ed illusorio quando non è addirittura beota, e un suo riscatto poetico può venire solo dalla malinconica consapevolezza della sua fugacità.
Questa visione ci riporta alla filosofia di Schopenhauer, della cui influenza speculativa Freud era consapevole e di cui Tolstoj si dichiarava ammiratore dopo averne letto l’opera principale nella traduzione dell’amico poeta Fet: la Volontà non sa di male e di bene, diventa male nella rappresentazione, per esempio, di un Leopardi… In psicanalisi il lamento sintomatico racconta lo scacco del desiderio per un godimento come effetto collaterale.
E’ solo con l’importanza che Lacan attribuisce al concetto di godimento, jouiessance, contrapposto, nel suo essere fuori conteggio e per sua natura obliato, al concetto di piacere (ma anche al “plus-godere”, e qui si aprirebbe una questione teorica che meriterebbe più attenzione) che il termine felicità, altrimenti da confinare nelle canzonette e nei bigliettini dei Baci Perugina, può tornare ad avere significanza, ovvero esistenza alla portata di ogni mortale di là della mitica e aristocratica eudaimonia del filosofo antico. Effetto di un Reale insensato: attraverso un tortuoso ma non impossibile percorso in cui fare i conti con l’ineludibile mancanza simbolica che ci fonda come esseri umani, la jouiessance vi riemerge sempre, ora come desiderio, ora come joui-sense, sapere.
C’è però un prezzo da pagare, quello che non vuole pagare il maniaco depressivo, impegnato com’è a disconoscere l’inconscio: non si può eliminare “il sentimento che non inganna”, l’angoscia, che della felicità, in qualsiasi modo la si voglia intendere, sarebbe il rovescio da mettere in conto. Per lo più ci adoperiamo per diluirlo con vari artifici, eventualmente, come detto, farne media con la gioia nella virtù della temperanza, ma il massimo del successo durevole che possiamo ottenere in tali esercizi è di farne, per una metafora musicale, un quasi impercettibile “basso continuo” nella nostra vita.