È fuor di dubbio che ci sia reciproca attenzione tra il discorso della religione cristiana e il discorso della psicanalisi lacaniana. Come se, dopo l’interesse di Freud per la mitologia religiosa dell’Antico Testamento che va a costituire la tradizione non solo ebraica ma anche, differita, quella protestante, si volesse colmare una lacuna nella disamina del mito della parola che si incarna. Che si incarna una prima volta nella creazione/ nominazione, ma una seconda nel Cristo. E una terza nella Chiesa: per Lacan quella cattolica, forse anche perché il suo fratello maggiore era monaco benedettino. Non manca una portata metaforica che può riguardare qualche mitica genesi del Simbolico, tipo l’incipit del Vangelo di Giovanni, quella cornice di vaga fattura entro la quale prenderebbe forma la riflessione lacaniana che assegna il soggetto al linguaggio per essere questo “la condizione dell’inconscio” ovvero del Reale nel sapere. Cornice giudicata, come ogni mito fondante, inessenziale per una scienza psicanalitica: meglio attenerci, per poter arguire qualcosa, alla fenomenologia degli stadi libidici infantili che conducono al linguaggio.
Tuttavia, il radicale ateismo e la radicale ripulsa dello spirito religioso professati da Freud perdono radicalità in Lacan. L’isterica delusa del sapere fallico che interroga intorno al suo godimento (“non è questo…”) diventa la mistica che finalmente, come godimento altro, che va oltre le parole, lo trova in un corpo a corpo con Dio. (Può sembrare una via d’uscita dalla mancanza, una strana eccezione, ma Lacan si guarda bene dall’assegnare al godimento qualche positività assiologica che vada oltre l’imprescindibilità del Reale nel nodo borromeo come sapere reale, inconscio, in una parola…).
Certo, quando Lacan esprime giudizi sulla religione può apparire contraddittorio. Ri-affermò (con Freud) che non c’è spazio, nel luogo in cui si produce la verità, per quanto provvisoria o illusoria, in cui possano coesistere psicanalisi e religione: nell’umano discorso sulla verità o vale l’una o vale l’altra, con la più grande probabilità che sia la seconda a restare in campo. In una conferenza tenuta a Roma vaticinò il trionfo della religione in un tono che non lascia dubbi sul rammarico.
Ma non finse che il Cristianesimo non sia il fattore della nostra civilizzazione e, apparentemente con Croce, affermò che non ci si può dire atei con ragione. L’accento va messo sul dirsi.
La prima ri-affermazione sembra quasi assegnare alla religione la stessa importanza, per il prodursi dei legami sociali, dei famosi 4 discorsi lacaniani, del Padrone, dell’Università, dell’Isterica e dello Psicanalista, salvo che, in favore dell’ateismo, non le si tolga ogni dignità di poter produrre sapere. Il che sarebbe lo stesso, per esempio, del togliere ogni dignità all’erotismo in ordine a un sapere sull’inconscio, come fa Jung.
Ergo, fintanto che i discorsi restano 4, Lacan resta freudiano nei confronti della religione.
La seconda affermazione trae la sua solidità su due piani: il primo è il carattere di negazione freudiana, di Verneinung, attribuibile in questo caso al prefisso privativo di ateismo, una tipica evocazione al negativo da non confondere con la Verleugnung, sconfessione; il secondo, strettamente collegato, è l’evidenza che l’impossibilità a “dirsi” è precisamente logico/simbolica alla stregua dell’”io mento”, tutt’altro che patologica alla stregua del “non può non dirsi cristiano” del Croce. Si dice ciò che si è, il soggetto (dell’enunciazione) perché lo si fa essere dicendolo, non l’Io (ontico, dell’enunciato).
“Dio è inconscio”, allora non se ne parla che da posizioni soggettive tanto autentiche da non essere ontiche o nosologiche; o è prima o è dopo la parola che lo riguarda. Di conseguenza, da un punto di vista lacaniano, chi si dice cristiano potrebbe forse esprimersi nella “parole plein”, mentre ci si può definire atei solo nella “parole vide” che parla per occultare il soggetto.
Se non che Lacan, nel suo porsi come antifilosofo e freudiano, è filosofo suo malgrado, filosofo addirittura parmenideo e spinoziano, la riprova ne è che oggi il suo pensiero (il suo dire) incontra complessivamente più filosofi (attenti a non citarlo mai…) che psicoterapeuti, perciò non gli sfugge che qualsiasi attenzione all’assoluto, all’Uno, nasconde un’attenzione a Dio in senso antropologico, eppure non può farci niente, meno che meno fare finta come il mascalzone della Foresta Nera. Se nomino Spinoza è perché è il filosofo che è andato più vicino a fare coabitare l’essere umano e Dio senza immaginarli avvicendati al centro di qualcosa, cioè senza fare di un dio un soggetto o di un soggetto umano un dio: tutto qui, ma è già qualcosa, tra tanti filosofi sempre a scervellarsi per salvare il senso umano fatto assoluto ad ogni costo eppure immaginando come potrebbe essere il mondo se non fosse quello che è.
Parlando di attenzione all’assoluto ci si riferisce alla formula per cui “non c’è Altro dell’Altro”, come dire che non c’è un metalinguaggio che garantisca al linguaggio umano una completezza logica o che gli dia una consistenza oggettiva, ma del pari alla correzione per cui “l’Altro è il luogo del linguaggio”. Così, se pure l’Altro resta l’interlocutore o, meglio, l’interrogato, unico interno-esterno creatosi nella genealogia umana, c’è per logica un luogo di ogni luogo. C’è il rischio di isolare un Reale come super mito, sfondo metafisico di ogni speculazione topologica. Lacan ne è conscio, definisce un senso siffatto “impossibile” sottraendosi anche all’immaginazione topologica, per esempio a quella del “toro”, e in fondo all’Immaginario tout court, tanto che scarseggiano appigli metafisici per criticarne il pensiero, basta e avanza un suo presunto logocentrismo.
D’altra parte, c’è sempre in Lacan l’ipotesi dell’altro sesso come incomponibilità antitetica ad ogni monismo. In verità rispetta con ciò anche ogni dualismo, non parte all’attacco contro la dialettica, ma raccomanda all’analista di sapersene liberare, farne a meno tanto quanto ne fa a meno l’inconscio.
Comunque, un dualismo lacaniano sarebbe paradossale: 0<>1.
Questi ragionamenti sfociano in alcuni significanti tipicamente lacaniani: la beance, l’apertura permea, il litorale invece del confine, il taglio dell’intervallo, il buco come assenza di qualcosa che ha la sola realtà dell’orlo. Ma, ricorrendo ad una delle figure topologiche predilette da Lacan, è il soggetto, il buco o il vuoto entro il toro, non l’oggetto, la ciambella, a rendere impossibile il nulla.
Generoso, chiude per sé il discorso dell’Assoluto senza nascondere l’imbarazzo e lo lascia aperto per i filosofi: “C’è dell’Uno”.
L’uno è pensabile come primo numero ordinale intero, in relazione al due in rappresentanza di tutto il resto, ma soprattutto per noi moderni in relazione allo zero, cioè non tanto primo cardinale quanto indeterminato infinito nelle formule di Hopital per trattare come determinati i limiti tendenziali. Lacan taglia corto: “L’Uno comincia dove ce n’è Uno che manca”.
Non si tratta qui di einziger Zug, ritagliare la realtà per poter ri-conoscerci qualcosa, l’oggetto/significato, noi stessi, per esempio, si riferisce piuttosto al Reale fuori senso e fuori sapere che per noi non può esserci se non in un tautologico, intanto che provvisorio, “c’è”, verbo al presente senza predicato, unica lettura sensata del “cogito” cartesiano, altrimenti un tipico pensiero sintomatico ossessivo in bilico tra solipsismo, tautologia e megalomania. Un “c’è” che rimanda retoricamente al “non c’è” del rapporto sessuale, al venir meno di ogni completezza in cui l’evento abbia senso per suo conto mettendo fuori gioco il soggetto. Grazieaddio, si potrebbe dire, no?
L’uno è della mancanza, non dell’essere.
Se nessuno può dirsi ateo a ragione, cioè, in hegeliano, “per sé”, niente vieta di essere atei o atee in sé, qualità “forclusiva” ma tutt’altro che psicotica: semplicemente accade se l’inconscio non trova la rappresentazione di Dio Padreterno più funzionale di altre infinite superstizioni per dirigere (nel sapere) i suoi scopi di equilibrio libidico. In verità, a differenza della comune credenza, è un disinteresse che, se è autentico, è più diffuso tra le donne che tra gli uomini, e di cui ho un esempio vicino in mia moglie.