Per Lacan il mysterium tremendum, il sacro, l’oltre limite, l’escluso ontologico di Heidegger, deve essere banalizzato come causa di enigma, causa “reale”, concreta, ciò che non funziona, che non va da sé, un inceppamento nella vita della struttura e del soma che vi soggiace: un intoppo destinato ad assumere l’aspetto di un momento di autocoscienza come coscienza del limite, che, come l’affetto di angoscia, non mente. L’evento di Badiou, da tempo che è, si fa segno di Reale diventando il problema cui dare la forma che la realtà esige. Non fosse così, il sacro coinciderebbe semplicemente con l’inumano.
Tutto ciò che c’è nasce per noi come “enigma, un’enunciazione senza enunciato”. Così fu in origine, non c’è dubbio, ed è una qualità originaria che segna e mette a rischio ogni nostra parola. Se cercassimo la causa del nostro discorso ci impantaneremmo nell’Immaginario deviando dall’inconscio ben prima di arrivare al Reale: l’evento in causa, perché di questo si tratta, ha solo due possibilità di esistere ovvero di inserirsi nel mondo, o come trauma più o meno morboso o come parvenza elaborata dal linguaggio. Il discorso è la nostra risposta al “tempo perduto”, continuamente perduto tra un evento e un altro: che vi agisca il desiderio è la condizione perché un futuro possa esserci, ma nella sostanza ogni nostro dire o fare è a sua volta un evento in una serie che riecheggia il primo grido del neonato, evento a fronte del mondo.
Il massimo punto di mistero sacrale sarebbe senz’altro il momento in cui decadesse il limite del Simbolico per il quale “che si dica (on dit) resta nascosto dietro ciò che si dice (qui se dit) in ciò che si intende”. Vale anche per il pensiero.
Tutte le buffe meditazioni più o meno orientali di autocoscienza (buffe se fatte da noi, non dagli Orientali) mirano dopo tutto a uscire dignitosamente da quel momento di vertigine diluendolo in un sacco di altre faccende spirituali. Essi meditatori non discuterebbero l’asserzione di Lacan che “l’enunciazione non si ridurrà mai all’enunciato di un discorso”, riconoscerebbero anche che noi diciamo solo ciò che intendiamo del discorso dell’Altro, ma sorge il sospetto che essi vogliano mettersi al livello del suo silenzio eventuale.
I nostri mistici e mistiche invece, non pretendendo di fare un discorso ultimativo argomentato come i filosofi, ma volendo dire di botto il parlessere come spirito assoluto o, come i poeti, la verità dell’anima, essendo il dire anche un fatto di corpo, finiscono per dire la materia Una, ovvero il corpo eterno ed estatico della Donna; basta leggerli per accorgersene.
Questo per un motivo semplice, l’esperienza mistica di diluire il proprio, ciò che è mortale, nel tutto, presuppone un tutto, ma allora, giustamente, presuppone la continuità, cui si affida, mentre la conoscenza può avvenire solo in modalità discontinua ovvero discreta per come è dis-creto, scelto, ciascun significante, lasciando proprio al corpo non “organizzato” l’analogia con il Reale.
L’oltre-limite non può avere altro significato o qualità che l’accettazione del limite delle parole che è anche la qualità di quel placido benessere che sembra non piacere del tutto ai poeti e per niente ai mistici…