Per i Gentili le prescrizioni alimentari del Levitico e del Deuteronomio sono enigmatiche. I tentativi di formulare spiegazioni razionali, cioè causali, di tipo igienico sono apparsi poco convincenti dall’epoca di Maimodine fino all’’800 positivista.
Ovviamente anche il divieto cristiano, per esempio, di mangiare carne il venerdì si sottrae a spiegazioni che non riguardino pura ritualità o forse una negazione della negazione di un primo più arcaico divieto antropofagico, ma suonerebbe insolito se un Cristiano interpellato al proposito rispondesse come mi ha risposto un mio amico rabbino: “Perché non mangio anguilla marinata, pasta alle vongole o prosciutto? Semplice, perché così è scritto”. Come no?! In fondo è scritta la Bibbia ed è scritto il genoma…! Scherzi a parte, in quella risposta si trova lo spunto per dare riscontro a una domanda ben più impegnativa che da qualcuno oggi viene posta: “Che cos’è un Ebreo senza la sua religione?”.
È un tipo di uomo o di donna che sopravvaluta la parola scritta a ragion veduta, per la diffidenza che gli suscita tutto ciò che si dice parlando, comprese le parole del suo stesso dire, anche quando la possibilità di connotare verità va intesa tecnicamente, come possibilità euristica, non eticamente.
La matrice dell’umorismo ebraico è il gioco di parole più autoironico che aggressivo, precisamente un gioco al ribasso del significato e al rialzo del senso di un discorso, gioco d’interpretazione ed estraneazione, in una parola, di prospettiva, più facile se si legge che se si ascolta.
Più una scelta che una necessità: sempre in emissione di un messaggio si privilegia il significato e in ricezione il senso, pertanto non ci sarebbe primato di valore umano cioè di verità dello scritto sul detto, è solo che il Padrone è soprattutto padrone dello scritto fino al limite del Logos, per esempio fino a dove in una tautologia svanisce il significato ma resiste il senso.
Neanche è solo degli ebrei sapere che le parole ingannano, e la sopravvalutazione dello scritto è un sintomo perfetto per chiunque, antropologico da almeno cinquemila anni. Qui bisogna essere assolutamente chiari, solo qualche cretino può pensare che gli Ebrei esistano di là dell’immaginare di esserlo, ma purtroppo vale ancora la battuta: “Se un Ebreo si dimentica di essere ebreo c’è sempre qualcuno che glielo ricorda”. Molti miei concittadini seppero di essere ebrei solo nel 1938.
L’Ebreo in sé non esiste e, se fa mostra di esistere per sé, lo fa, oggigiorno salvo poche eccezioni, assolvendo alla funzione di schermo proiettivo del “disagio della civiltà”. In altre parole, testimonia sull’insoddisfazione per la mancanza dell’assoluto e sull’assoluto dell’insoddisfazione umana. Troviamo sicuramente un maggior numero di uomini del genere di Woody Allen a Trieste che a Tel Aviv, e l’artista che interpreta la macchietta dell’intellettuale ebreo-americano sa benissimo di rappresentare anche l’Europa a New York.
Tutti noi europei siamo eredi di una storia tormentata, fatta di lotte cruente che coinvolgevano tutti nella paura e nell’azzardo quando il Wille zur Macht di un signore incontrava quello di un altro o il desiderio di punti fermi di un prete si scontrava con altri punti fermi. Piccoli o grandi popoli che si trovarono anticamente a vivere anche per ragioni geografiche nelle differenze e nell’instabilità (l’”arcipelago” di Cacciari fuori di metafora), dal mare di Teseo e di Icaro spargevano nel mondo con la loro lingua adatta alle metafore, la krisis perpetua, il giudizio su una realtà che l’editto dei re sacerdoti voleva unica e stabile.
Prima le dispute filosofiche, poi le diatribe in auge nella scolastica cristiana, non furono da meno del Talmud o delle pazzesche invenzioni della mitologia greca nel privilegiare l’interpretazione rispetto il detto. Si eternò così, in un certo senso si istituzionalizzò nello spazio dell’incertezza, il desiderio di altro e l’altro desiderio, l’obiezione, la precarietà del discorso dell’essere occidentale in cui si accomoda il pensiero negativo, il dubbio metodico. L’incertezza, che ha il suo rovescio nella verità del momento e il suo naturale antidoto nella forza, nel tagliar corto, è il Leitmotiv della struttura in cui noi siamo rappresentati e, pertanto, per lo più abrogati come voce in capitolo, tal quali lo saremmo stati nelle più “persuase” civiltà dell’editto. Se c’è qualche remedium alla contingenza, si tratterà di precetti minuziosi, di conseguenti conformismi morali o di obbligatoria fiducia (un ossimoro) nella moneta.
C’è un tipo d’uomo o di donna che non ci sta o ci sta di meno, tra questi chi non si lamenta tanto di dover vivere gomito a gomito con Polemos, nel gioco al massacro della verità, quanto del fatto che il gioco è truccato, che l’interpretazione sia sempre di secondo grado avendo già scelto l’oggetto interpretato, la parola sfuggente, o il suo significato sfuggente, tanto sfuggente da prestarsi a vicendevole sostituzione per la rapida destrezza del baro, di quello che dice di andare a Cracovia perché si creda che vada a Leopoli quando va proprio a Cracovia, o infine di chiunque si trovi nella posizione di poter tagliare corto sul significato, un padrone, di solito.
Quel tipo d’uomo o di donna, dato per acquisito che il confronto delle armi non porta a niente di nuovo e che comunque per esso non sarebbe attrezzato, ha cercato prima di tutto di portare il confronto etico sì sul piano delle parole, ma riordinate sul piano meno equivoco già sperimentato nell’e-ditto, meglio, nell’in-scritto, di Faraone o di Hammurabi. È la re-invenzione di Mosè.
L’homo occiduus (forse in tutti i sensi), di cui l’Ebreo è infine diventato un paradigma, pretende serietà almeno nel metodo: retorica, declamazione, resoconto, ermeneutica, ingiunzione e ironia restino almeno separati e riconoscibili. Se, ammettendo che le parole volano e lo scritto rimane, si individua intanto il maggiore effetto di Reale che Lacan assegna allo scritto, in cui la lettera è meno integrata con il significante: scripta maneant sì a futura memoria, ma anche per consentire un ricorso giuridico con qualche possibilità di equità, quella reclamata dal liberto e dall’imputato, dal negoziatore, dal banchiere e dall’isterica.
Il bello dello scritto è di essere immobile, sottratto al tempo come un suo brandello, così che si possa più facilmente prendere ovvero apprendere e utilizzare tal quale con calma, nelle condizioni d’animo meno sfavorevoli. La quantità di scrittura occidentale non solo è storicamente enorme rispetto quella orientale, ma è evidente la sua meno stretta relazione con la lingua parlata. Per esempio, incredibilmente per noi, i Giapponesi parlano il giapponese come se scrivessero il cinese.
La verità non c’entra, non è in alcun modo privilegio dello scritto, la cui utilità è puramente strumentale: semplicemente dire “Ipse dixit” non è lo stesso che dire “Ipse scripsit” né per dare vigore alla menzogna né per svelare l’essenza di dominio dei legami sociali. Se il dire rappresenta effettivamente il soggetto, la scrittura finisce per rappresentarlo in una sua realtà significata ed oggettiva, l’oggetto libro. Ma anche l’oggetto Storia. A futura memoria, per esempio a quella della cosidetta intelligenza artificiale, una faccenda di cui oggi si parla tanto.
È inoltre evidente che la convenienza della legge scritta, sta nel fatto che facilita sia lo starci a ragion veduta, sia lo starci alla lettera per aggirarla, buffa specialità ebraica (il timer acceso il venerdì per accendere il sabato l’aspirapolvere automatico…), sia il trasgredirla, di nuovo a ragion veduta. Lo scritto non chiede di essere letto moltissimo, vi si ricorre quando i discorsi si fanno troppo precari.
L’Ebreo rimane il paradigma dell’uomo occidentale che è anche l’uomo della Costituzione, il rompiscatole che rimanda il discorso del padrone all’ultima istanza che lo fonda, il che forse sarebbe più facile fare scrivendo che semplicemente parlando. Ma che talvolta rimanda la lettera al mittente: “Perché ad ogni mia domanda rispondi con un’altra domanda?” – “Perché non dovrei farlo?”.
Resta da far notare che, per suprema ironia, proprio lo Stato di Israele, prodotto ultimo del Popolo del Libro, avendo il commentario di più di tremila anni reso arduo il ricorso alla lettera biblica, (siamo all’opposto della fascinazione teocratica resa facile dal facile ricorso alla immobile lettera del Corano) non si sia munito di una Costituzione più articolata della Torah e meno del Talmud a garanzia di una democrazia che rischia spesso di rimanere solamente conclamata con l’affermazione, buona per una common law o un’equity provvisoria, che ci sono anche Arabi nel parlamento.