73. DEBOLEZZE

 Gli scienziati della natura, i fisici per esempio, usi a misurare e sperimentare quantità oggettive, mostrano meno ostilità di principio verso la psicanalisi degli addetti alle scienze umane.

 Tra quegli scienziati cito solo un nome che dovrebbe essere ricordato come eccelso, quello di Norbert Wiener, il grande matematico nume della cibernetica.

 Non solo riguardo la psicanalisi nutriva il più grande rispetto, ma anche per la narrazione dell’Essere (soggettivo) riservata al retaggio di novellieri, drammaturghi, poeti, che esula dalle pretese degli scienziati “non congetturali”.

 Sapeva che gli enormi successi della scienza per antonomasia, la fisica, erano conseguenza del privilegio di poter sperimentare in due dimensioni divise e distanti il soggetto ricercatore e l’oggetto ricercato e di dover esercitare la modestia nel rinunciare a ricercare ciò che, mancando quello stesso privilegio, resterebbe inevitabilmente precario. Indeterminato, come Heisenberg dimostrava. Sapeva che quei successi erano la conseguenza dell’essersi affidati al sotto-linguaggio purificato di senso per eccellenza, la matematica: vedere l’effetto che fa tra i significati e trarne deduzioni. Peraltro, con lui non dovremmo mai dimenticare che il numero in matematica corrisponde al punto in geometria, cioè a qualcosa privo di dimensione, essenza e qualità! Probabilmente la rinuncia preventiva della matematica al senso consente alla stessa di produrlo.

 D’altro canto, disprezzava come fallimentare e velleitario, se non disonesto, il vezzo da parte di uno storico o di un sociologo di scimmiottare il metodo delle scienze esatte per autoproclamarsi neutrale e obiettivo. Non è lo stesso che ricorrere legittimamente ma umilmente a formule riduttive per trasmettere conoscenza con semplicità ed efficacia, accettando tuttavia che nelle cosiddette scienze umane l’uso della matematica resti, più che in altri campi, modellistico inattivo ovvero metaforico, ancorché reso trasmissibile con esattezza in base a convenzione didattica.

 Non ho mai inteso niente di più nella fiducia straordinaria di Lacan nei suoi famosi matemi.

 Prima che i riduzionismi logico-matematici della realtà, cioè gli “schemi” in senso stretto, sia puntuali (algoritmi) che topologici, di cui si avvale il metodo scientifico, possano cambiare il mondo o anche solo la sua rappresentazione, bisogna che qualche mondo sia immaginato e descritto nell’unica maniera possibile, in parole: senza di esse non può esserci il prima e il dopo della trasformazione che diventerà ex post narrazione.

 Wiener non solo sapeva, come Ebreo riparato negli USA, che l’applicazione di categorie delle scienze naturali allo studio del mondo umano stava dando cattiva prova nel cortocircuito con ideologie infauste, ma, nella sua verve epistemologica, sapeva che se uno storico, per esempio, volesse occultare le ipotesi alla base delle sue ricerche, scadrebbe al livello di “uno straccivendolo che vaga nel passato a caccia di vecchiume”, per dirla con Lucien Febvre, ma pessimo storico sarà anche se disconoscerà l’inevitabile implicazione di valori più o meno suoi, più o meno consci, soggettivi o ideologici, nelle sue ipotesi. Nessun ricercatore cerca dati estranei ad ipotesi.

 Newton che si vanta di non figurarsi ipotesi è meno credibile di Picasso quando dice di trovare l’arte sua senza cercarla, ma l’unico che può fare simili affermazioni senza lasciarci dubbiosi è lo psicanalista che vede trasformarsi il mondo del soggetto consentaneamente alle sue parole (genitivo soggettivo), cioè senza che si faccia distinzione di cause ed effetti. Non sarà inappuntabilmente scientifico né sempre compiutamente artistico, ma funziona.

 Invece gli stessi scienziati dell’umanità che vagano derelitti e devitalizzati nei dipartimenti universitari sfornando disoccupati, si ritraggono dalla psicanalisi come da cosa infetta per scarsa pulizia scientifica. Questo è comprensibile perché la psicanalisi, limitando la sua prassi alle eccezionalità singolari o, al massimo, all’”universale singolare” sartriano, non promette sviluppi molari, tali da poter apparire interessanti alle agenzie e istituzioni che organizzano e indirizzano la società di massa in ordine a investimenti. Suona malissimo a quelli che già sentono di essere sfavoriti nella corsa all’oro proposta come momento della verità e della virtù, non solo nel discorso del capitalismo ma anche in quello dell’università, come selezione in ordine a finanziamenti.

 Un fantasma di disvalore di sé stessi in questi scienziati va di pari passo con l’invidia per le scienze esatte per quanto godono di ricadute tecnologiche e conseguentemente di facile coinvolgimento nel mondo delle merci e dello scambio.

 Lo scienzumano ha anche questo catalizzatore per potenziare una sua resistenza alla psicanalisi, resistenza che sarebbe, come è in generale, una manifestazione di transfert negativo in cui disconoscere il proprio scontento prima che volga a domanda.

 Lo scienzumano qualche volta fa anche fatica ad uscire dallo sgomento che gli ha provocato l’avere scoperto o anche solo sospettato che la psicologia è pressoché l’opposto della psicanalisi, un opposto poco implicabile in una dialettica hegeliana per servire da shifter di verità, dato che fattivamente, nella sua prassi, la psicanalisi con la psicologia non c’entra affatto. C’entra solo per la vaghezza di un campo contrassegnato dal termine “psiche”, del tutto provvisoriamente contrapposto a “soma”. Nella psicologia almeno è preservata la possibilità della sperimentazione, gli psicologi vi si buttano speranzosi, ma subiscono la maledizione di tutti gli scienziati della modernità, di trovarsi apprendisti stregoni nel tempo in cui non c’è più uno stregone in grado di risolvere i loro pasticci e di svelare il disegno esoterico che sovrasta il loro apprendistato.

 L’urgenza di fare, che paradossalmente, in una rincorsa, è addirittura più evidente negli scienzumani che negli scienziati tout court, ha il difetto di esporre a giudizi: chi fa sbaglia, si sa; non sarà da invidiare lo psicanalista che è tanto più bravo quanto meno mostra di fare, quanto più lascia che le faccende parolaie dell’analisi si facciano da sé? Ahi, sappiamo che l’invidia precorre l’odio, ne è la verità.

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