77. HETERODOKSIA

 Da quando sappiamo, avendolo appreso da Lacan, che la verità è un semi-dire sempre tra le righe, sappiamo che di conseguenza una ortodossia può essere il più grande attentato alla verità di una dottrina, perché dà rilievo pedissequo ad ogni riga di testo per servirsene di solito come prova d’accusa in qualche processo agli eretici. Fingendo di non sapere che ogni parola porta appiccicata la sua verità solo in qualche suo risvolto e che ogni spazio di inter-riga nella scrittura di un trattato fa posto per la verità a debito della riga precedente e a credito di quella successiva.

 L’ortodossia è vile, evita di rivolgersi al nucleo di una teoria, evita di predicarlo, temendo di additarne insieme al dicibile e visibile anche il suo indicibile e invisibile, il luogo di un possibile nuovo ma soprattutto altro paradigma (a pensar male, più ostico di quanto potrebbe esserlo per la concorrenza eterodossa); si dà invece da fare ciecamente per pettinarne l’argomentazione, per garantire la manutenzione ordinaria delle opere difensive intorno all’altura, alla vedetta. Una teoria è fatta per offrire un punto di vista ma ci sarà sempre l’invisibile dietro il soggetto che guarda e anche dietro l’oggetto del suo sguardo.

 È l’enigma che non manca in nessuna teoria come ciò che l’ha strutturata a partire dall’ipotesi e che rimane come suo sfondo. Non è stato detto che Galileo fu il genio che, come sempre succede, scopre e allo stesso tempo occulta? Ogni grande strada non si apre a spese di altre strade e sentieri?

 Sono i guerrieri di Popper a non scorgere l’enigma, per l’effetto di scotoma frequente in chi si fissa su un punto ritenuto adatto allo sguardo. Invece l’isterica per dire “non è vero” non cerca il pel nell’uovo dalla sua posizione di eterna opposizione.

 L’ortodosso, poco versato in epistemologia, teme l’assedio dell’esercito di Popper e chiama a soccorso uno stratega statico, Làkatos, mentre prima o poi saranno i masnadieri di Kuhn o di Feyerabend ad aggirare la postazione e a decretare la sua obsolescenza veritativa in senso più generale. Difendere o criticare i significati di solito è un esercizio futile a cospetto del senso.

 Per inciso, non serve nel percorso della scienza che accoglie e mantiene nella sua Storia tutto ciò che viene cassato come teoria e non ammette di aver prodotto vere e proprie scorie, effettivamente possibili solo se (erroneamente) pensate indipendenti dal punto di vista e dal metodo osservativo o interpretativo. Non c’è migliore paradigma dello sviluppo autopoietico (in luogo del progresso) che la scienza. Le rivoluzioni scientifiche soffrono della povertà di tutte le rivoluzioni a fronte dell’evoluzione. È mia opinione che nella storia del sapere umano c’è stato in verità solo un salto catastrofico, il passaggio da segno comunicativo a significante informativo, da rappresentazione fenomenica immaginaria a simbolica cioè, in definitiva, da natura a cultura.

 Così come le varie eresie sono state il miglior vaccino per tenere in vita il messaggio cristiano, allo stesso modo, senza i freudiani non ortodossi, consapevoli o meno che siano, oggi la psicoanalisi sarebbe una vacua psicoterapia, di cui peraltro la stessa Anna Freud volle prendere la via.

 Staremo a vedere, non io, per ragioni anagrafiche, dove andrà a parare la cooptazione e l’imprescindibilità ormai creatasi di concetti mutuati dall’insegnamento di Lacan nella psicoanalisi in tutte le sue manifestazioni dottrinali in giro per il mondo.

 È normale che i prodotti culturali vengano tardi o tosto sottratti alla loro paternità, lo sanno i maestri veri che privilegiano l’esempio del proprio stile e i maestri falsi che privilegiano la lezione, ma non è chiaro quale dei due tipi, dopo aver prodotto una sorta di “alienazione” nell’allievo, si affanni di più per ritardarne la “separazione”. Su queste basi acquista sapore quello che, secondo Engels, Marx avrebbe detto di sé in uno scatto d’ira per la sciatta ingenuità di certi rivoluzionari parigini: “Allora io non sono marxista!”. Per inciso, capitò a Lacan di fargli il verso con più serietà programmatica di quanto può sembrare, anzi, ad ogni buon conto: “Fate come me, non siate lacaniani!”.

 L’ortodosso ha il suo stile canonico, sorretto dai riferimenti a piè di pagina in corrispondenza del numeretto o dell’asterisco, delle note referenziali, delle precise indicazioni bibliografiche. Questo richiede l’Università, è lo stile del suo Discorso, uno dei quattro Discorsi umani che si fronteggiano e si integrano così come sono individuati da Lacan.

Ricordo, pour cause, che Lacan non vedeva facile l’integrazione tra il Discorso dell’Università e il Discorso dello Psicanalista e non dava sempre indicazioni esplicite e precise sulle citazioni: dovrebbe essere già evidente come io non ne dia mai, anche e soprattutto sulle sue, di citazioni, contravvenendo un poco al suo consiglio di non scimmiottarlo. D’altronde, giocare a nascondino con i riferimenti, annunciarli criptati, era una tipica civetteria dell’epoca in cui si assisteva perplessi alla digitalizzazione degli schedari cartacei. Pigrizia, da parte mia, fiducia nei nuovi strumenti disponibili per reperire con facilità riferimenti bibliografici, ma anche una provocazione che spinga a leggerlo, oggi, quando si avvicina per il pensiero di Lacan il pericolo della sommersione esegetica, ermeneutica, decostruttiva e finalmente sinottica.

Ricordo anche un buffo esempio di protervia ortodossa tratto da esperienza personale. Quarant’anni fa, vivo Lacan, in un consesso lacaniano chiamai i tre registri Reale, Simbolico e Immaginario “categorie”: fui neanche tanto gentilmente corretto dal relatore. Naturalmente si poteva benissimo dire così nel contesto mio discorsivo.

In Italia alcuni anni fa si è deciso, pena non so quanto aspre correzioni, di sostituire il termine “sembiante”, che in effetti riprende il semblant francese ed esiste come aggettivo sostantivato anche nei vocabolari italiani, con “parvenza”. Veramente decisivo per metterci al riparo da eresie!

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