Penso che il mio amico B., filosofo, utilizzi la filosofia, alla quale riporta un attento studio del pensiero di Lacan, anche come personale resistenza alla psicoanalisi. Resistenza ostativa in quanto esterna di principio, rivolta alla possibilità della domanda e a qualche transfert del tutto preliminare. Me ne rammarico, perché, se metto a confronto la sua grande cultura, sensibilità e ricchezza nell’argomentare con la sua egualmente grande e insolita attitudine ad ascoltare qualsiasi interlocutore, persino me, mi figuro una perdita, uno spreco per la psicanalisi: quale psicanalista si perde!
Ma Freud aveva ben individuato oltre alla resistenza dell’analizzante, fruttuosa per la cura, una resistenza massiva, infruttuosa e ostativa che si esprime in varie forme.
Per la psicanalisi nessuna forma di resistenza e nessuna negazione perde un suo pregio, quello di puntare un dito trepido verso qualche verità inammissibile, ma, passando al sociale, la psicanalisi immagina una perfetta mossa di judo affermando, con Colette Soler, che il vigore della resistenza sociopolitica alla psicanalisi nella nostra epoca è proporzionale alla vitalità della psicanalisi stessa, per cui assume il valore “politico” di segno beneaugurante.
Una delle più efficaci modalità di resistenza culturalmente organizzata (in termini lacaniani, con il Grande altro) è proprio la tendenza a fagocitare la psicoanalisi, intesa solo come dottrina, entro la filosofia o nell’antropologia, sottraendone l’indigesta valenza pratica, dopotutto preter-clinica, schiettamente realista, antifilosofica e anti-medicale, come un resto altrimenti ridotto a mediocre psicoterapia.
Così filosofi e dotti di vario genere. Così anche i grandi esegeti di Lacan, di solito filosofi che si sono guardati dall’intraprendere un’analisi, inficiando perciò totalmente il loro discorso.
I meno dotti, magari psicanalisti, e gli psicologi vorranno viceversa normalizzarla, per l’Università o per il Ministero della Sanità, tappandovi ogni possibilità di apertura nella teoria già troppo dirompente per i loro gusti, riducendola di nuovo a mediocre psicoterapia, nell’illusione di appropriarsene dopo averla disinnescata. Fare soprammobile della bomba: siamo allora alla famosa “psicoterapia di indirizzo psicanalitico”.
Ricordo la ricerca di un tale Schultz sulla quantità di “guarigioni” distribuite per i diversi tipi di psicoterapia: la proporzione non si discostava di molto sia nelle pratiche teoricamente più sofisticate o medicali che in quelle più stregonesche, Lourdes non esclusa.
L’approccio filosofico e quello psicologico sono le espressioni di resistenza più raffinate e distruttive, ben più delle legittime critiche epistemologiche alla Popper, a loro modo fondate (va bene, non è una scienza per come lui la vorrebbe…); più del dileggio goliardico alla Kraus e alla Nabokov o di quello vile alla Diatkine che si limita ad attaccare Lacan ma con non minore superficialità di giudizio; più delle critiche di destra che recitano: “E’ una masturbazione intellettuale” (per la verità lo sentii dire pubblicamente anche da Basaglia, che certo di destra non era); più delle critiche di sinistra che recitano: “E’ una pratica di omologazione e normalizzazione borghese”. Lo scrissero Deleuze e anche Adorno, ma il secondo non conosceva l’ulteriore percorso della psicanalisi dovuto a Lacan soprattutto riguardo il riscatto etico del desiderio.
Non cessano le critiche moralistiche di varia e generica provenienza che una volta riguardavano la centralità della sessualità nella teoria e oggi si appuntano su rischi di suggestioni e dipendenze dimenticando che ogni cosa al mondo può creare suggestioni e dipendenze ben più rudi.
Tuttavia la psicoanalisi deve temere, delle due resistenze che vanno ad annidarsi nelle scienze umane, più quella delineata nel suo stesso ambito psico-logico, giacché della filosofia essa psicanalisi può essere intesa come verità hegeliana o rovescio, ammettendolo da par suo per denegazione, protestandosi cioè antifilosofica, mentre sono la psicologia e la psicoterapia il vero opposto estraneo, perciò poco malleabile dialetticamente, della psicanalisi nel loro porsi come scienza e clinica di un oggetto chiamato soggetto. Tale oggetto ambiguo non può essere che l’Io, tant’è che Lacan vedeva nell’IPA e nei suoi mentori neofreudiani come Anna Freud o Hartmann, dediti all’analisi delle pulsioni egoiche, di per sé immaginarie, l’istituzione deputata a fare dell’inconscio una specie di difetto della personalità che mostri il suo sintomo nell’incongruenza tra enunciazione ed enunciato; mentre invece di fatale, eterno e salutare al pari di questa incongruenza, al mondo c’è solo il sacrosanto limite del “Vero” tautologico.
La psicanalisi viceversa può candidarsi con qualche chance euristica ad essere la scienza del soggetto del desiderio inconscio a patto di intendere i genitivi come grammaticalmente soggettivi, cioè che sia il soggetto analizzante nel suo dire sull’Io a produrre scienza come individuazione del desiderio e del godimento che l’Io non può provvedere per sé. Cioè come individuazione di un godimento altro che coincida con il desiderio (di sapere) e non di quel godimento dell’Altro che implica un Io illusoriamente autonomo per un godimento destinato ad assumere di volta in volta l’aspetto di una scienza paranoide che scambi certezza per verità, di qualche super-egoico fantasma perverso (i piaceri cosiddetti perversi sono per lo più suggeriti dal Super-io: probabilmente non ci verrebbe di usare in strana ed impropria maniera un oggetto se non ci fosse descrittivamente imposto di non farlo), oppure dell’impossibile purezza etica, una sorta di “sublimazione obbligatoria”, sbandierata di solito nelle religioni e nelle ideologie totalitarie..
Ma in fondo e paradossalmente l’interdizione poliziesca, autoritaria, del desiderio individuale, è la più rispettabile e leale delle resistenze politiche nella logica e nel destino della psicanalisi, oggi a rischio di trovarsi funzionale per una strana etica autodiretta su cui si regge la democrazia formale e liberista.
Si può osservare che invece proprio sulla resistenza che si realizza come appropriazione istituzionale in ambito psicoterapeutico fa astutamente leva la politica delle democrazie liberali quando, nel mettere in atto il suo altalenante bisogno di sintesi pacificatoria, prende in antipatia la psicanalisi vera che crea un attrito nel meccanismo capitalistico mettendo in crisi le credenze semi-stabili adatte per la programmazione del prodotto; mentre ingloba volentieri le psicoterapie come nuovo prodotto di consumo. Spingendo a che la prima rientri nelle seconde mediante qualche legge ad hoc ipocritamente protettiva e tendenzialmente distruttiva tipo l’italiana Legge 56/89 detta “Ossicini”.
Una tattica simile attua la religione, non prende di petto la psicoanalisi, non ne vuole sapere di scontrarsi direttamente, sceglie i migliori sicari, cioè quelli che vi hanno più facile accesso, gli psicanalisti “lapsi”, sia detto tra noi, spesso junghiani, i mistici e, superando qualche timore, filosofi come Severino e Vattimo o qualche teologo laico, non ignorando che la resistenza è sempre resistenza a un transfert da negare, riguarda sempre la posizione di chi sente una pruriginosa attrazione per la verità della mancanza di verità, che avverte (inconsciamente e giustamente) come vitale e pericolosa apertura alla tyche. Una faccenda da gestire, altrimenti crescerebbe come disponibilità al nuovo inimmaginabile, minacciosa per quell’immaginario ubi consistam cui in fondo mira ogni fede e nel cui tiepido automaton colui che sceglie di non sapere sul suo desiderio, credente o non credente, vivacchierà alla meno peggio.
Godendo di delusioni, di illusioni spirituali o di feticci più o meno somministrabili, tra questi, per tornare a quanto dicevo del mio amico all’inizio, qualche sistema filosofico in sé e per sé perfetto ma non in grado di smentire la definizione della filosofia come “quella cosa con la quale e senza la quale il mondo rimane tale e quale”, sempre che non usurpi il posto della religione che di guai riesce a farne ben di più debordando dal primum vivere.