Ho un ricordo epifanico della mia maestra delle elementari, la buona Grossi (Grossmayer), un’espressione sognante del suo viso dopo che ci chiedeva: “Ecco, di’ con parole tue quello che significa questo racconto”. Ascoltava i nostri farfugliamenti come in un rapimento, non critico, non valutativo, non interpretativo (“interpretazione, che brutta parola!”, diceva Freud).
Non credo che si facesse illusioni sulla nostra comprensione del testo, del suo senso, né che potesse esserne delusa, piuttosto che le piacesse il momento soggettivo, il momento della parola che nasce trepida e titubante.
In lei forse, non posso escluderlo, anche la trepidazione nel riconoscersi causa della nostra inibizione, della domanda che aleggiava tra i banchi: “cosa vorrà che le diciamo?”.