100. TOLLERARE SE STESSI

 La psicoanalisi ha smesso di interrogarsi sulle debolezze epistemologiche della sua dottrina. Ha potuto smettere di faticare per munirsi di difese verso le critiche che vengono dall’esterno, avendo eretto un corpus dottrinale gigantesco dotato di un suo lessico che intimidisce e scoraggia gli “scienziati” delle scienze umane dall’affrontarne criticamente, cioè in qualche modo dall’esterno, i nodi teorici. Per fare un solo esempio, il concetto di “pulsione” sarà da prendere criticamente per il verso dell’origine oppure della meta? Oppure, a quale integrazione tra le due topiche freudiane dare credito?

 Resta invece del tutto sguarnito di fronte alle critiche il fianco della pratica clinica e specialmente terapeutica. Ne fa segno tutta la letteratura che esamina il possibile esito di un’analisi personale, cioè il giovamento che il paziente, l’analizzante nella terminologia lacaniana, dovrebbe trarre dalla cura. Tutta questa letteratura mostra un evidente imbarazzo nel suo dedicarsi a resoconti antologici, i “casi clinici”, razionalizzazioni di drammi esistenziali spesso aggiustate in favore d’ipotesi, per approdare infine a formule qualche volta del tutto nominalistiche nello stile di molte diagnosi mediche.

 Acquisito che, se si vuole, contento il paziente (magari anche di non più pagare), può sempre dirsi finita la cura; acquisito che la sparizione di quel sintomo che ci ha portati all’analisi è sempre una trasformazione per cui quello che si caccia dalla porta rientra per la finestra, hanno perso molta credibilità anche formule non puramente ablative. Eccole, alla rinfusa: maturazione della personalità come liberazione dell’Eros prima bloccato nelle pastoie regressive, oppure, all’opposto, rafforzamento dell’Io e del “principio di realtà” nella relazione con l’oggetto parziale patologico; identificazione con la parte sana della propria personalità (o con quella virtualmente sana della personalità rappresentata nell’analista); capacità di coordinare pensiero, parola e azione; accettazione della castrazione simbolica a fini di integrazione sociale nella genitalità matura (l’opposto della genialità). Non sfugge il lato comico per cui l’uscita da una nevrosi potrebbe essere l’aver mutuato tra loro sintomi ossessivi e isterici oppure una posizione borderline che introduca, laddove difetti troppo, qualche moderato aspetto paranoide, maniacale, perverso, conformista, oppure quella “moderata depressione” che Freud addita come sintomo di normalità psichica.

 Passiamo a formule più raffinate: possibilità di farsi carico del proprio sintomo; assumersi la responsabilità del senso da dare alla propria vita e con ciò al mondo; farsi capaci di dire (o scrivere, ed è il caso della passe lacaniana) l’irriducibilità e la specialità del proprio modo di godere; conoscere il desiderio senza oggetto come pura disponibilità alla tyche dopo “aver attraversato il fantasma” ovvero le proprie fantasie di ripetizione; riciclarsi propriamente come psicanalisti anche senza la pretesa di professare, dato che il desiderio dello psicanalista è l’opposto, una volta tanto non il rovescio, della voglia di diventare psicanalista.

 Insomma, il significato di guarigione o successo della cura in psicoanalisi è molto diverso da quello in medicina che, dopotutto, è il ripristino di uno stato precedente supposto di salute, funzionale o anche solo beffardamente clinico, mentre ogni medico ha ben presente che la vita è una malattia mortale. A questo proposito ecco tre fra le più conosciute annotazioni deontologiche freudiane: “Io l’ho curato, Dio l’ha guarito”; “Non tentare di vivere in eterno, non ci riuscirai”; “Bisogna guardarsi da ogni furor sanandi”. Potrebbe la psicoanalisi menzionare una restitutio ad integrum, dopo che Lacan ci insegna che l’essere del soggetto nel suo rapporto con l’Altro, cioè in tutto ciò che vuol dire essere al mondo, risponde a incompletezza strutturale?

 Da parecchi decenni gli psicoanalisti hanno pudore di usare la parola “guarigione” e l’hanno sostituita con il termine “esito dell’analisi”. In tutti i casi un’analisi si svolge in un continuo logico “per via di togliere” (un modo di dire, non si levano significanti…) e per “via di porre”, cioè di acquisire qualcosa da sostituire al disagio privo di un significato che non sia l’inane godimento di annullarsi nell’ossessione di sempre qualcos’altro oppure l’inane godimento di un no sempre ripetuto nell’isteria.

Sembrerebbe così che un’analisi assomigli a un percorso di formazione.

 Ma la vita stessa, soprattutto nella sua fase giovanile, è un percorso di formazione, dipende da quanto riconoscimento esige l’Io Ideale. Eppure, come la storia non risulta, ad ogni riprova, essere magistra vitae, così l’esperienza modifica di poco la tendenza a ripetere gli errori nelle iniziative personali. Lo stesso per la scienza impartita, il sapere insegnato e studiato che modifica l’aspetto degli errori, non la tendenza a ripeterli. No, la psicoanalisi non è una didattica, è l’avvenire del soggetto.

 Un tizio diceva che nella vita aveva imparato solamente che non si riesce ad aggiustare un’unghia rotta mordicchiandola. Altri che non bisogna mai fidarsi di come viene un peto. Io dalla psicoanalisi praticata ho imparato che si scrivono gli appunti di cose da fare sull’agenda solo quando in verità, cioè inconsciamente, si desidera dimenticarsene e non farle. Credo poco altro. Mi comporto di conseguenza e tutto procede discretamente, salvo qualche altrui disappunto: molte cose, se non ho promesso di farle, non le faccio, ne faccio altre.

 Ora, avendo assistito ad alcune analisi “finite”, mi sono fatto l’idea che la psicanalisi abbia un’utilità paradossale, qualora riferita, come deve essere assolutamente, ad una talking cure: nell’allenamento dell’”atto analitico” si passa sul versante opposto, si liberano le energie per il fare, prendendo o non prendendo appunti sull’agenda perché, considerando un proverbio italiano, si è colmato il mare tra il dire e il fare. Non nell’assurdità di una energia liberata per l’onnipotenza, a smentire il dettato metaforico del proverbio, ma nel senso di un avvicinamento e un cortocircuito tra i termini che ne smentisca la lettera. Eliminato il “come se” borghese, residuo retorico della volontà di potenza, l’analisi alla fine iscrive il dire, possibilmente il dire bene, e il fare su un nastro di Moebius: si dirà e si farà in maniera continua e non discreta tra i due momenti. Se ne trae l’impressione di una certa flessibilità ed efficacia di queste persone nel fare e nell’astenersi dal fare, nel loro rapportarsi sociale, un rapportarsi peraltro mai conformista o ideologico, anzi, molto “idiotico”, per usare la parola usata da un professore per definire lo stile di scrittura molto personale e nello stesso tempo molto corretto dello studente Sigmund Freud.

 L’asserzione di Lacan che la psicanalisi, cura di parole, “è la logica dell’azione” traduce il “wo Es war soll Ich werden” come, nelle parole, cambiare per capire invece che capire per cambiare.

 A questo punto, tornando al fatto che in analisi ci conducono i sintomi, dove si collocano i sintomi in questo esito? Beh, ci si cura forse della natura della carta su cui si scrive? Il sintomo, rispetto il vivere, è sempre il suo sfondo, il “non c’è” del rapporto sessuale e perciò un compromesso tra il godimento, interdetto all’esperienza conscia (non come il super-godimento, immaginario), e il desiderio. Il compromesso o aggiustamento simbolico che sia, è un nodo in una catena di significazioni e, per quanto si possa sciogliere, trova in essa di che riannodarsi tra illusioni e delusioni ed è meglio che sia così. Può essere la nuova convivenza con il sintomo, il proprio stile, quello che Lacan indicò come “sinthome”, l’espressione del Reale in noi parlesseri, espressione algebrica non ulteriormente riducibile per sostituzione di significanti, tanto da rendere conto dei limiti della cura alla fine della storia del suo insegnamento: era il 1976, un po’ come aveva fatto Freud nel 1937 con il saggio “Analisi terminabile e interminabile”. Per non scervellarsi, come si usa, sui tre “ultimissimi” seminari, fino alla conferenza di Caracas: forse Lacan volle rendere conto dei limiti di sapere e potere, togliere la psicanalisi dalla Storia della scienza, luogo del senso, e consegnarla al Reale impossibile.

 Mi pare però di ricordare che già dopo due analisi interrotte, io prendessi le cose e gli eventi fortuiti che appaiono esterni nel mondo o interni nel corpo o interiori nel pensiero come messaggi che dovrebbero significare qualcosa; da ascoltare, fintanto che restano indecifrati o indecifrabili, con la cortese attesa che un senso si sveli e senza ripulsa per il mistero che, muto, permane di là del senso, custode del loro enigma. E che dell’insipienza non fossi più innervosito, dopo aver saggiato che ciò che appare importante non ha molto senso e ciò che appare insensato può invece essere importante; questo secondo caso può corrispondere alla parte del sogno che svanisce per paura della sua verità (il punto sull’andamento libidico tra pulsione e desiderio…) non appena si tenta di ricordarla.

 Che vedessi con un po’ più di umorismo o di autoironia l’impotenza a padroneggiare l’esistenza come antidoto dell’essere. Tutti dovremmo dire ciò che disse Uno nel roveto ardente: siamo quelli che siamo. Non ha che fare con una peregrina saggezza da “bonzo”, semmai con un avvenuto cambiamento di posizione (tra i significanti) e pertanto, cioè solo di conseguenza, di punto di vista. E non che si vedano le stesse cose più nitidamente, più chiare e distinte dall’alto o da vicino, se ne vedono altre. Come quando ci si sveglia al mattino di pessimo o di ottimo umore senza apparente motivo se non di qualche sogno che non ricordiamo. L’umore. Né depressione né smania, né pessimismo né ottimismo, quando per un po’ di realismo ci vuole prima un caffè. C’è forse in questo esito un po’ di umorismo ebraico, chissà, forse è un effetto, l’umorismo, da attendersi comunque. Di certo un po’ di autoironia, come quinta virtù cardinale. Forse c’è da attendersi anche qualcosa di più appagante idealmente, qualcosa che assomigli alla famosa Gelassenheit di Heidegger, opposta da lui alla hybris della tecnica. Magari senza il suo dolciastro sapore auto assolutorio, piuttosto la scoperta che certi mali che ci hanno portati in analisi sono come il raffreddore, non si possono curare ma solo sopportare.

 Potrebbe sembrare l’essere riusciti a sottrarsi al “fastidio” della pulsione, all’”antica brama” di Saba e di Bolaffio, ma così non è, non è la “noluntas” di Schopenhauer, buona solo filosoficamente, un “nirvana” ebete, tentazione nihilista di ovviare all’ossessione per l’Uno: piuttosto può essere l’accettazione di un desiderio senza oggetto definito che non sia un atto amoroso per la condizione umana che ci lega, che trova il suo migliore esercizio in qualche, anche modesto, operare. Rinunciando, ecco la famosa “castrazione”, a scrutare il godimento al fine di comprenderlo tanto da poterlo riprodurre. D’altronde in perdita, se non volete o non potete rubarlo.

 Qui viene bene citare Primo Levi: “Amare il proprio lavoro è la più concreta approssimazione alla felicità”.

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