103. BUON INFINITO

 Il riconoscimento del soggetto negli altri e dell’Altro (data la sua inidentità) in noi al di là dell’inevitabile rispecchiamento immaginario, pertanto il riconoscimento dell’essere il mio e l’altrui soggetto un effetto contingente nell’infinitudine dell’Altro, in quella che Lacan chiama inconsistenza per non chiamarla inesistenza, comporta automaticamente una drastica riduzione dell’ipertrofia dell’Io se-parato, un significato tra altri, ovvero una reificazione pomposa nella struttura simbolica: è una riduzione in favore del soggetto che nella struttura è rappresentabile come pura disposizione al dialogo per allargarsi nell’Altro, cioè come un’identità in movimento, mutuabile almeno di principio con e tra i significanti che ci sono e potranno esserci.

 L’Io invece mal sopporterebbe di essere preso per un altro e per evitarlo si ingegna a esibire tutti i segni che lo rendano distinguibile e riconoscibile per come si immagina e ancor più per come vuole essere immaginato nella dimensione in cui si compiace di vivere alla meno peggio.

 Il pericolo è di potersi isolare, di voler essere “speciali” dimenticando di esserlo anche se non lo si vuole. Niente a che vedere con la “beata solitudo et beatitudo sola!”: si tratta più trivialmente di quell’individualismo e personalismo moderno che ci fa imbalsamare il soggetto in un involucro per misura e spessore proporzionale alla paura della morte, anzi, si tratta di quell’Io che già da sempre fa tutt’uno con la presenza della morte nell’immaginario.

 L’Io e la morte sono le invenzioni consentanee del disamore, della sfiducia preventiva nelle parole nostre e altrui, dopo che ci si è illusi sulle risposte che l’Altro può dare alle nostre domande: l’Io è sempre un ritirarsi nell’Io per paura della verità che il problema del senso e del nonsenso della vita è affare nostro, responsabilità del soggetto e non d’altri speculari tra i quali annoverarsi secondo convenienza, non di quelli che erano prima né di quelli che saranno dopo. A meno che non si pensi per fede di poter leggere il senso bello pronto in qualche Rivelazione.

 Oggi tendiamo a fuggire da quella responsabilità nel Reale, naturalmente in quello che supponiamo lo sia e che la scienza ci addita sempre in un tempo presente che coincide con la cronaca degli eventi, terribile errore non solo perché in quella direzione si incontra solo l’Immaginario, ma perché il registro di vita più lontano dalla morte sarebbe semmai il Simbolico in cui il soggetto è messo in gioco alla pari tra i significanti di prima e di dopo riconoscendosi come fatto di parole al cospetto dell’Altro.

 Le parole che ci siamo scambiati per trattare la mancanza e la solitudine che tutti ci accomuna tornano tutte, quale più chiara quale meno, al luogo da cui provengono, all’Altro che non muore perché, appunto, non esiste che nel Simbolico. Tornano al non-tutto, se siamo lacaniani. È in fondo il miglior commento all’aforisma di Montaigne per cui il significato di “ogni parola è per metà di chi la pronuncia e per metà di chi l’ascolta”.

 Se l’analisi, facendoci presentire nel transfert e nella “libera associazione” che nessuna parola va persa del tutto e per sempre, depura l’angoscia esistenziale della sua componente più kitsch, l’ossessione della morte e i suoi esorcismi, questo è già qualcosa di buono che può esserle ascritto.

 L’inumazione è stata sì il segno dell’umanizzazione, facendosi simbolo e parvenza di molte cose in onta all’isolamento insensato, ma, diamine, una volta per tutte!

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