È del tutto induttiva, cioè, fondata su diverse evidenze, la mia certezza del fatto che chi ha percorso una analisi personale fino a esserne soddisfatto tanto da poter soddisfare l’analista, risulti essere migliore di quanto fosse prima e migliore della media dei suoi simili. Il più generico dei comparativi di valore resti nel più generale ambito umano, quello della convivenza, così che, per farla breve, lo si possa riferire a una essenza generica e onnicomprensiva di amabilità e disponibilità ad amare, risparmiando al momento il repertorio delle virtù canoniche di diversa estrazione e la loro comparazione.
Freud era molto critico riguardo il comandamento cristiano di amare il prossimo come se stessi. Disse che nella grande maggioranza dei casi non trovava negli altri se non aspetti che rendevano difficilissimo e propriamente balzano ottemperarvi. Al proposito sapeva due cose, che noi amiamo noi stessi limitatamente a una parte infima di noi stessi, l’Io ideale, tutt’altro che estraneo all’idea di avere un corpo, e che l’amore comunemente inteso, secondo lui narcisistico, è quello che aveva ben individuato nel meccanismo del transfert, un errore di prospettiva per cui l’amato è immaginato e sopravvalutato come ideale dell’Io a completamento di un proprio Io ideale. Gli era più facile cogliere l’inganno dell’introiezione che quello della proiezione, ma non coglieva il lato volutamente scandaloso dell’ingiunzione cristiana, abissale, che andrebbe a toccare l’impossibilità come unica qualità del Reale, l’intangibile Cosa adatta all’Uno celibe, intanto che impossibile senza di noi. Amare per principio il prossimo sarebbe come amare il suo godimento inconscio e sintomatico non temperato in una precisa situazione sociale; perciò, impossibile da godere in santa pace tanto quanto è impossibile che io goda il mio, di godimento, intimo ma anche estraneo, sia per quanto vi è di rimozione superegoica, sia per quanto vi può essere di fuori misura come evento del Reale nel corpo. Invece l’altrui godimento ci appare o come mostruosità o come sottratto al nostro: forse per Freud venire in contatto con il prossimo fuori da un dialogo convenzionale era venire a contatto con l’Es, con tutto ciò che si nega pronunciando il pronome io. In ciò è il vero senso dell’aforisma di Sartre: “l’inferno è gli altri”.
L’ingiunzione cristiana ci sfida a tentare l’impossibile affinché, inevitabilmente sconfitti, ce ne facciamo una ragione e ci rassegniamo ad amare l’unica cosa che si può amare senza contraccolpi odiosi, l’imperfezione allo stesso tempo nostra e altrui, cioè a riconoscere il soggetto incompiuto e sintomatico come ipotesi valida di vita. Cosa difficilissima, ma non impossibile nella mediazione della Legge simbolica, del patto di parola con l’Altro che apra la strada al dialogo come inedita charitas nell’incontro con il prossimo. Sappiamo che, a soccorrere l’altro, un po’ dimentichiamo o addirittura risolviamo i nostri problemi (anche per questo esorcismo si diventa medici), ma nulla saremmo in grado di dare all’altro se non dessimo qualcosa a noi stessi; in ciò è la soluzione della vecchia curiosità sull’atto misericordioso di S. Martino: “Perché dapprima mezzo mantello e non l’intero mantello?”. È l’invenzione del prossimo come soggetto accomunato nella miseria primaria e come compassione anche di sé stessi. Il riconoscimento del soggetto nella mancanza (in cui si acconcia ogni rapporto) non è né oggettivo né altruista. Contemplare nell’altro la nostra stessa incompletezza, la mancanza che muove i desideri più insulsi o cocenti ma anche, come auspica Lacan, “l’amore di Lalingua”.
Ecco, diciamo che si può uscire da una analisi più portati a questo esercizio d’amore non moralistico. In questo senso, migliori? Sì, ma per qualche effetto sociale, se no, chi se ne frega se uno è migliore o peggiore di altri!
La psicoanalisi non conosce la Norma del Vivere Migliore, è spesso portata a ironizzare su antichi paroloni come eudaimonia, aretè, agathoi, ma riconosce una virtù, quella di vivere a viso aperto il proprio strambo desiderio. Si tratta di autenticità nell’accezione edificante di Jaspers? Non credo, vi rimane impossibile come peraltro quella tanto dionisiaca quanto piccolo borghese di Nietzsche o l’autenticità egualmente velleitaria di Heidegger o Sartre. Si tratta semmai di una non impudica spontaneità che abbia accettato e scontato l’inconscio.
Non solo sarebbe auspicabile un mondo in cui fossero tali virtuosi ad avere voce in capitolo, ma è anche certo che la voce in capitolo la conquisterebbero se esistessero in numero non esiguo. Virtuosi amabili, è sperabile, non tetri moralisti privi di appeal e senso dell’umorismo. Incontrare il Reale della “parola piena”, nec spe nec metu, come indicò Isabella d’Este.
È facile scorgere proprio nel riconoscimento del soggetto in quanto incompletezza incolmabile il fondamento addirittura delle quattro virtù cardinali, cardini del comportarsi di santi ed eroi, se appena si capisce che tale riconoscimento esclude di rincorrere strani ideali dell’Io (spesso paludamenti di parata per un Io ideale) che il desiderio, nell’illusione di completezza, omnisense lacaniano, prende occasionalmente di mira in ordine a “risistemazioni” morali. Può un’etica vera seguire canoni?
Prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Vediamo: chi, per virtù di analisi, sa che nel suo stesso dire, nei significanti in cui si rappresenta, appare la logica delle sue azioni, saprà esercitare quel tanto di autoironia o horror sui (quinta virtù cardinale, no?!) da adeguare i suoi scopi ai mezzi che si ritrova se non i mezzi ai suoi scopi e da sospendere il giudizio sugli scopi altrui, saprà distinguere tra autorità e autorevolezza, bisogni e desideri, e saprà che può evitare tutto ma non di fare testimonianza del proprio desiderio nel suo proprio stile. Prendere la parola quando è necessario, né prima né dopo, ma prenderla. È quello che Lope de Vega intendeva come quell’onore che è sempre retaggio del singolo ma che miracolosamente diventa collettivo per i trecento abitanti della commenda di “Fuente Ovejuna” nel dramma che così si intitola. Può la psicanalisi avere effetti politici?
Passino anche le virtù teologali, perché no, a patto, si badi, che la prima, la fede, una virtù già diffusissima di suo, rivolta a quella o quell’altra cosa, non sia un valore in sé e per sé e neanche univoca per forza! A patto che la speranza si integri e si attivi nel desiderio per non essere una cretinata, e che la carità sia quel difficilissimo ma non impossibile amore disinteressato riferito dal termine greco che traduce, Agape, senza quale, secondo S. Paolo, le altre virtù non valgono niente.