Grande consolazione lacaniana che il soggetto, a differenza dell’Io, non sia rappresentabile o, più precisamente, non sia scrivibile per sé stesso, né come una Vorstellung né come Vorstellungrepräsentanz, data la sua natura di “mancanza a essere”. Cioè, che il soggetto non sia individuabile in base a principium individuationis essendo propriamente l’agente che individua. Al massimo che possa esserlo come quello spazio vuoto che lascia la prima persona singolare verbale quando è implicita, oppure come barra saussuriana. Neanche un sintomo rappresenta il soggetto ontologicamente perché, appunto, non esiste un soggetto ontico e il sintomo stesso, rappresentando l’inconscio, virtualità di significanti e non essenza soggettiva, si trasforma continuamente entro l’interpretazione supposta ontologica. Siamo unici, ma non in sé unitari.
Il soggetto è evanescente ed evenemenziale, viene all’esistenza per dire la sua solo nel riposizionarsi continuamente tra le parole, i cui referenti non sono le cose ma il loro senso. Il soggetto è un vuoto contornato da qualche senso strutturale delle cose, tutt’altro che stabile ma soprattutto tutt’altro che garantito in ordine alla pacificazione dell’esistenza pratica che tuttavia si svolgerà al cospetto dei significanti e pertanto di un Altro supposto dialogante nella schisi di senso e significati.
Nel soggetto è l’Altro semplicemente perché non c’è Altro dell’Altro, chiaro?
Il soggetto non ha confini né legge che li dicano, la sua funzione è di debordare l’Io, un significato, e il corpo, un’immagine. In ciò è l’evanescenza ontologica del soggetto, non posso pensarmi se non essendo altro che me stesso, mantenendo il significato doppio e contraddittorio della proposizione. La natura del soggetto è tal quale “la natura del sembiante” nella definizione di Miller, quella di porsi dove non c’è nulla, così da interpretare l’essere o il non essere di tutte le altre parvenze.
Neanche il pensiero nel suo complesso, res cogitans o lavoro mentale, rappresenta il soggetto, come un effetto non rappresenta una causa, ne fa solamente segno precario o, meglio, allusione decisamente riduttiva. Di sicuro il soggetto è più nel dubbio di Cartesio, che nella sua cogitabonda risoluzione.
La consolazione è la possibilità che l’Innominato abbia resipiscenza e si converta, sì per grazia di Dio, ma, diciamolo, anche un po’ per conto suo. Si pone extra lege com’è di sua abitudine, ed è solo mentre si arrovella rabbioso su che fare con Lucia e con sé stesso, solo con il dubbio fatto di parole che desiderano verità su desiderio e godimento, di là dei comandamenti che possano venire da un super-Io che nella circostanza letteraria sembra essere abbastanza assente. Non pensa di essere pensato da Dio, ma non è escluso che stia accadendo qualcosa del genere, dato che a quei pensieri non riesce a sottrarsi: è come l’analizzante che si è inoltrato nella domanda di analisi tanto da accettare l’ipotesi di poter essere parlato in luogo di parlare, fatto quel poco di chiosa al passato che lo smuova verso il futuro.
Il soggetto, l’Innominato, è pensato come tutti sempre dall’Altro nel Simbolico, cioè da tutto il resto rispetto l’Io strutturato in cotanta potente forma (un resto, per inciso, che potrebbe trovare consistenza nel famoso pronome neutro freudiano: Es…), vive la mancanza di qualche significante per lontananza o per non ancora esserci, tuttavia escludendo di poterlo escludere a priori come causa a venire di significazione e senso. Al netto della religione, è ciò che potrebbe residuare anche da altre infinite superstizioni provvidenziali o esorcistiche: l’impossibilità di vivere senza senso se pure si decidesse di vivere senza giustizia.
Per questo è così poco credibile che un essere umano nel momento della catastrofe in cui si ri-trova inerme, hilfloos, possa sottrarsi alla preghiera, di qualunque genere sia, per esempio del suo minimo denominatore di scongiuro: il tempo di reazione alla catastrofe non è più il tempo dell’immaginario, è del simbolico in cui c’è l’Altro. Invece quando la catastrofe è troppo prossima nel tempo e nello spazio si chiudono gli occhi, per non esser-ci…
All’eziologia del soggetto si adatta bene l’aforisma del grande fisico Maxwell: “Ogni effetto è effetto di infinite cause”. In questa verità, che non so quanto serva in fisica, non solo si esorcizza quello che di giuridico risuona nel termine latino causa e ancora di più nel corrispondente termine greco aitìa, ma si rende anche ragione del problema del libero arbitrio perché, se le cause del nostro comportamento sono infinite, curarcene non sarà logicamente alla nostra portata e pertanto diventa del tutto razionale, se non si dispone di un vademecum morale, disinteressarsene e privilegiare il desiderio per risolvere un dilemma etico. Tradurlo in un dilemma di desiderio: invece di chiedersi qual è la cosa giusta da fare chiedersi cosa si desidera veramente… lusso da gran signori, da personalità di gran formato, come intuito dal Manzoni.
E il desiderio non è solo “paradossale, deviante, erratico, eccentrico o scandaloso”, ma è essenzialmente implicato nell’Altro, nel luogo del linguaggio che a sua volta è indeterminato, incompleto e non garantito (poiché non c’è metalinguaggio), luogo tuttavia del desiderio che, in quanto dell’Altro, succedaneo di Dio, si presenta anche come legge etica. È il luogo da sottrarre almeno un po’ e per principio all’Immaginario: in origine, nel bambino, è il territorio che si apre per la fiducia in un dialogo con la madre “sufficientemente buona” tanto quanto basta per non inibirlo al livello del licet experiri libidico (erotico) nella parola, con la conseguenza, in quel caso inopinato, di mortificarlo nell’Io della rabbia. Il soggetto non è altro che l’alternativa in fieri della brutalità.
Una gnosi con caratteri artistici, piena di sentimento, che da un nostro immaginario stato di natura muove verso la natura del nostro stato sulla via delle parole segnata da un desiderio che, nostalgia d’amore e di unione, del tutto cattivo non può essere, così che Lacan ci può raccomandare di “non cedere sul desiderio” senza che in ciò ci sia scandalo.
Il cinico luciferino, oppure il critico volterriano snob e pertanto nichilista, che tacciano Rousseau di ingenuità otti-mistica mancano questo passaggio induttivo dopo che è mancato nello stesso Rousseau.