Che la verità, se c’è, sia rivoluzionaria è un aforisma anche lacaniano. Che sia ogni volta una verità a scandire i più radicali cambiamenti di prospettiva in un’analisi personale è un fatto. Ergo, poiché nella psicanalisi c’è il farsi della verità, pur escludendo che ne sia un effetto finale, la psicanalisi è rivoluzionaria.
Peccato che invece nelle rivoluzioni non ci sia il farsi della verità.
La verità non vi si fa se non, solo di sfuggita qualche volta, nel suo momento destruens, nella rivolta. La rivoluzione è simbolicamente quasi sempre una sorta di “acting out” collettivo, atto inconsulto che supplisce non tanto efficacemente alle parole quando si inceppano nel discorso umano. Un fatto artistico o isterico, a seconda dei casi, a seconda di quanto sia un effetto, una causa o una retroazione.
È un fatto di tempo: la rivolta, anche quando, raramente, appare come un meditato “passaggio all’atto”, ha tempi brevi sotto la spada di Damocle della repressione che in fondo è la sua verità.
Il rivoluzionarlo, suggerì Lacan nel ‘68, ha bisogno di un padrone per potercisi sostituire. O almeno così interpreterei la famosa frase con cui abbandonò l’aula gremita di quelli che in quei giorni lo “contestavano secondo la moda”.
Le parole tornano presto sulla scena della rivoluzione e l’atto assume per l’appunto il senso di atto teatrale, con il che, quando sull’ultimo atto cala il sipario, catarsi o non catarsi, non per questo crolla il teatro. È un fatto di tempo: se il tempo, come si dice, qualora sia abbastanza, rende sempre giustizia, è la verità della rivoluzione ad essere giustiziata. Peraltro, giustamente, per fare spazio all’attesa di altra verità.
È lo stesso per ogni psicoanalisi personale che, si sa, non può finire davvero. Si dice finita in base a qualche convenzione.