110. IN PRINCIPIO FU L’AZIONE

 Per chi come me è stato toccato nella sua educazione dal cattolicesimo, c’è il brutto ricordo del prete che chiedeva, in riferimento al VI Comandamento, se avessi peccato con azioni o pensieri. Io conoscevo già la canzoncina “Die Gedanken sind frei”. Una questione e un problema. Sarei riuscito facilmente a districarmene con la teoria della psicoanalisi. Appunto solo in teoria, probabilmente. Una teoria e una pratica che spinge a prendersi la responsabilità perfino del proprio inconscio in modo che la responsabilità, condizione dell’etica, vanifichi la colpa. L’insufficienza del prete non stava nel suggerire uno squilibrio di peso tra i due generi di peccato, ma già nel fare la distinzione, dato che nella Confessione si tratta solo di coscienza della colpa, cioè di rovescio del godimento.

 Una trasgressione non ha lo stesso peso di conseguenze se è una fantasia o un atto, se questo atto è privato o pubblico, certamente, ma il rapporto dialettico con la legge, ovvero la colpa, non cambia proporzionalità, se si sta al dettato di S. Paolo per cui è la legge a creare il peccato.

 Lacan non ha difficoltà a sostituire l’etica al desiderio perché la Legge in un’accezione psicoanalitica è un desiderio inespresso, enigmatico, autocratico dell’Altro, desiderio che, al livello del precursore dell’Altro, della madre, si esprimerebbe per il bambino come la causa dell’assenza di una in altre misteriose faccende affaccendata. Assenza frustrante e perciò facilmente declinabile come punitiva, che rimane tuttavia legata al desiderio stesso, magari come suo rovescio o negazione della sua negazione. Sul piano di una qualsiasi filosofia dell’etica fa sempre un certo effetto spiazzante l’intuizione lacaniana che il desiderio è anche desiderio della Legge, sia essa del linguaggio o malauguratamente del Super-Io immaginario, ma niente spiega meglio il fatto che dove c’è una proibizione c’è un desiderio e viceversa.  Che i divieti elencati nel Decalogo morale, si leggano in Esodo o in Deuteronomio o nella Vulgata, sempre facciano riferimento, per quanto riguarda la colpa, al desiderio puro e semplice e non alla effettuale presa sull’oggetto proibito, rimanda all’idea lacaniana di un godimento contingente, come “ciò che non cessa di non scriversi”. Non ne abbiamo cognizione così come non abbiamo cognizione del tempo presente che è il suo tempo, mentre possiamo accedere alla lettura del desiderio che lo rappresenta nelle qualità della nostalgia e dell’illusione.

 Alla fin fine, se esaurissimo il defilè metonimico degli oggetti del desiderio fino al significato che non c’è, al Fallo, oltre non ci sarebbe, tal quale in un retour e a scanso della Cosa incestuosa, il godimento del desiderio stesso? A dimostrazione che la mancanza nostra fondativa, quella che gli animali non hanno, è il vero valore.

 L’Altro, “angelo custode della mancanza”, è indaffarato, non sempre ha tempo di dirci cosa vuole da noi, cosa è permesso desiderare, “cosa possiamo sapere, cosa possiamo fare, cosa ci è permesso sperare” per citare tre domande che si pose Kant (e che un giovane J.A.Miller pose a Lacan), trascura di indicarci l’oggetto che ci possa soddisfare, non risolve i quesiti scritti in un dipinto di Gauguin: “da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo”; eppure ci dà il tempo per potercene fare un’idea e non manca di intervenire nelle nostre interpretazioni offrendoci qualche via d’uscita nel nostro inevitabile percorso di trials and errors verso l’oggetto (a), residuo illusorio di tutte le parole, ed oltre, verso tutti i significati possibili/immaginabili; una via d’uscita, per esempio, che non sia del tutto sotto il controllo del Fallo. Se questa via ha un nome, si chiama dialogo.

 In un dialogo (anche in quello interiore di una psicoanalisi) può talvolta reintrodursi di soppiatto qualche significante cui è stato impedito l’accesso alla struttura simbolica come effetto di un primitivo episodio terrorizzante e causa di una rappresentazione insensata. Il senso vitale della struttura simbolica ne è minacciato, salvo un suo aggiramento. Altrimenti non si spiega il ricorrente riemergere nella memoria di minuzie invece di eventi importanti. Può trattarsi di rimozione freudiana o di “forclusione” lacaniana, condizione questa della psicosi, ma non sappiamo quanto una certa tendenza alla futilità sia generalizzabile come paradigma della condizione umana.

Lascia un commento