Quando i rapporti di forza e di parola, che sono alla base di ogni scambio, si sono stabiliti, cioè quando la scelta tra la posizione del padrone e quella del servo è immaginata come sensata, funzionale e ineluttabile nei suoi gradi, non c’è molto spazio per la politica e neanche per la rivoluzione, al massimo per qualche rivolta. Meno che meno c’è spazio per il sorgere della città come Polis, da cui politica. Ciò si riscontra in società povere di storia e ricche di tempo, per esempio in società tribali o negli imperi agricoli e teocratici dipendenti dalla realtà reale di cicli stagionali. Una polis è cosa diversa dalle regge fortificate per significare l’imperio del signore e per l’accumulo dei beni senza riguardo per il mercato, riconoscibili nelle civiltà più remote e anche nel castello medievale. Essa, sostituendo il tempio e l’agorà al palazzo, mostra il risultato della scelta di un gruppo umano di farsi comunità politica, cioè di passare dall’immaginario della forza al simbolico che possa giustificarla. Una comunità non è l’orda etologica né la ramificazione di un clan, e la legge della città non è l’editto scolpito bensì un punto di arrivo e ripartenza, di interpunzione, nel discorso tra oligarchi che hanno scelto di dialogare, sia pure in polemica teatrale con gli altri a fare da pubblico e con o senza la presenza, in quel dialogo, del significante regio.
Per inciso, non c’è al mondo né mai c’è stata altra forma di governo che l’oligarchia, più o meno evidente, più o meno diffusa: se mai un’altra forma ci sarà, sarà il frutto di quel “discorso che non sarebbe del sembiante” cui si intitola il XVIII Seminario di Lacan, ma non possiamo decidere se tale forma senza immaginario possa o non possa costituire un “progresso”.
Come si è arrivati alla politica? È una faccenda di signori mal riusciti, frutto di imperfezione, come ogni altra cosa al mondo. Facciamo l’esempio di due aspiranti padroni che devono riconoscersi una forza insufficiente per assicurare l’assoggettamento dell’altro alla sola condizione di aver già fatto i conti con la morte, può succedere, no? Sceglieranno di accordarsi almeno provvisoriamente ricorrendo al simbolico, a quel linguaggio che può ingannare o dire la verità con le stesse parole. L’accordo eventuale, da sancire con uno scambio di beni, è il senso del discorso, di ogni discorso. Se le impasse nella trattativa si fanno insuperabili si può alienare il bene troppo conteso a un notaio che lo amministri, un signore, un re da istituzionalizzare nella più attinente e insignificante delle maniere, come dinastia di sangue.
Un re non deve sapere niente, non deve fare niente, più incorporeo è meglio è, la sua funzione è quella dell’eccezione strutturale, il segno extra lege (lo scettro, il Fallo) che induce l’ordine in cui si oblii o si occulti la gerarchia oligarchica. È fondamentale stabilire un monopolio della violenza, insegna Max Weber, soprattutto a scanso di esercitarla, dato che il dover esercitare l’autorità è la prima sconfitta dell’autorevolezza.
Qui il servo non c’entra per nulla, non ha voce in capitolo, ha valore di merce d’uso, e il suo linguaggio, quello che gli è dedicato, deve essere inequivoco, lettera scritta direttamente nel codice della necessità: “dico va ed egli va, dico vieni ed egli viene”, protesta il centurione di Cafarnao, dimenticando che ci sarà pure una ragione per tanto insistere affinché Cristo gli guarisca il servo sulla parola, senza troppe chiacchiere e senza i fastidi, non si sa mai, della visita a domicilio.
E’ ben vero che l’essere umano è l’unico animale che non si accontenta di vivere riservando il Wille zur Macht al momento dell’estro, ma che desidera valere, essere riconosciuto di principio, se deluso prevalere comunque, tanto che nel mondo umano vige la pleonexia di cui parla Trasimaco a Socrate senza che Platone sia molto efficace nel confutarla, però tale pleonexia, il “di più”, è destinata allo scacco se ha la pretesa di esercitarsi senza mediazioni o regole, con la forza, perché non è altro che una reazione alla deludente debolezza originaria della creatura umana o il suo rovescio che prese anche il nome di hybris.
L’essere umano trova una terza via rispetto la vittoria o la morte, il nuovo approccio simbolico, perché l’ha già da sempre sperimentato con la nutrice, come prezzo per vivere. Vi si riscatta il genere femminile. Effettivamente è difficile immaginare il coinvolgimento delle donne con un ruolo preciso nel processo preistorico della civilizzazione: certo avevano dalla loro o contro di loro il sospetto del “corpo eterno della donna” che fa loro temere meno la morte e, per esempio, le induce al risparmio per il numero di ammennicoli da portarsi nella tomba.
E il servo? Beh, bisogna attendere Seneca perché qualcuno gli riconosca un ruolo di interlocutore.
Di politica ce ne può essere di più o di meno, certo di più in Ellade che nell’antico Egitto o in Cina, per cui quando pensiamo alla civiltà di tipo occidentale, dialettica, cioè autoplastica e alloplastica allo stesso tempo, che cambia cambiando il mondo e ne è cambiata, è facile dedurla dalla civiltà della Polis.
Ma la politica rimane sempre e solo la faccia buona di Polemos, una trasformazione simbolica o una interpretazione della lotta per il prestigio e per la conquista dei beni: la tentazione predatoria non ne è intaccata, non ne segue alcun patto sociale che la metta al bando, al massimo se ne sventola qualche bozza giustificatoria. In una lotta primigenia del potere Hegel mette in palio il prestigio, qualcosa di vicendevole che deve essere riconosciuto l’un l’altro, di solito per fede e continuamente.
Prestigio? Il potere se ne fa bello, ma sotto il paludamento appare il Fallo nell’accezione lacaniana, quello che si può avere o che si può essere per poter godere quando e quanto aggrada. Impossibile, come detto e stradetto, essendo effetto di Reale.
È senz’altro l’invidia del godimento (e l’idea di poterlo rubare) a un livello ben più generale dell’invidia per i beni, che genera la Storia. Sarebbe una forzatura interpretare gli eventi di trasformazione solo come necessario riequilibrio tra fattori economici e produttivi oppure come riequilibrio di poteri “reali”: storicamente non appare esserci correlazione lineare tra scarsità e squilibri di dare e avere materiale e spinte di cambiamento per i ruoli e le gerarchie all’interno di un gruppo umano.
Il godimento è anche una supposizione, sempre latente e pronta per diventare motivo scatenante in concomitanza con supposizioni di forza o debolezza. La guerra è sempre un “ritorno” alla guerra come a qualcosa di più originario, perché l’invenzione del simbolico in quanto tale, che consente la politica, è facilmente aggirata in un retour dell’Immaginario primitivo sia nel gruppo sia nell’individuo.
A leggere il libro della Genesi, tralasciando prime genealogie meno importanti, saremmo figli del fratricida Caino e non di Abele che non ebbe tempo di generare; subito dopo Enoch, figlio di Caino, un certo Lamech già confessa alla moglie Ada di aver ucciso un giovane per un nonnulla: belli inizi! Se Von Clausewitz ha ragione e torto, come peraltro tutti sempre, a sostenere che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, Carl Schmitt afferma tranquillamente che è più vero l’opposto, che la politica sia la trasformazione della guerra.
La guerra è come la politica, può essere interna o estera, entrambe nate tra Attica, Beozia e Laconia e, vogliamo dirlo, sempre retaggio virile. Le rivoluzioni sono “guerre di religione” ispirate a qualche supposta verità, guerra civile che avviene nello sfondo di una latenza o un crollo del senso che può mantenere coeso e in equilibrio un gruppo umano, la sua verità che va ricostituita.
Siamo abituati a vedere distinte in politica e nello stesso tempo costitutive di essa due tendenze, una progressista o di sinistra e una conservatrice o di destra, il fatto è che non sono simmetriche.
Non c’è filosofo, antropologo o uomo comune che non reputi l’essere umano più incline a curarsi della sua particolare posizione sociale che a darsi da fare per nuovi equilibri, specialmente se, come è molto frequente, il bisogno di sicurezza prevale sul desiderio di libertà. Insomma, prima di essere progressisti o rivoluzionari immaginari, saremmo blandi portatori di almeno una delle qualità del conservatore o, per Adorno, del fascista, il gusto della gerarchia e del vantaggio ad ogni costo negli scambi, anche a costo della violenza in vista di qualsiasi “Ordnung” se appena è possibile non esserne esclusi.
Si sarà già capito che a bella posta qui si trascurano le ipotesi su epoche remote del genere della civiltà “gilanica” escogitata dall’antropologa Marija Gimbutas in ritardo su Bachofen ma ben più entusiasta nell’immaginare un’età dell’oro al femminile. Non vi sono evidenze nella preistoria di civiltà agricole comunitarie, paritarie, pacifiche, stanziali su vasti territori che fossero organizzate dalle donne, se non si vuole enfatizzare il valore indiziario di reperti del tipo delle “veneri” neolitiche. Le floride donne “minoiche” sembrano destinate a restare un apax sospetto per gli archeologi, peraltro già intenti a riseppellirle (metaforicamente).
Talché Elsa Morante può indicare nella Storia del mancato riscatto femminile “uno scandalo di 10.000 anni”. Lo dice una donna e, per quanto riguarda le donne, può esserci verità più certa? Avesse indovinato Marx che saranno le donne la classe rivoluzionaria “in sé e per sé” nella post-modernità!
Torniamo al senso della lotta politica. Si sa che i protagonisti principali di quelle azioni politiche storiche che sembrano tendenzialmente progressiste o di sinistra appartenevano a un ceto superiore al ceto che patrocinavano. Tiberio e Caio Gracco erano aristocratici nipoti di Scipione l’Africano, Mario era più altolocato di quel Silla che fece la prima marcia su Roma. Lo stesso S. Francesco era un figlio della borghesia mercantile rampante. Goetz von Berlichingen fu un feudatario signore della guerra che volle politicizzare e dirigere una rivolta contadina: lui fu perdonato, molti contadini bruciati. Robespierre proveniva dalla nobiltà di toga. Engels non lasciò perdere i suoi interessi industriali. Tolstoj, Bakunin e Kropotkin erano aristocratici proprietari terrieri. Fu una “Lady” Panchurst ad animare le suffragette degli opifici. In fondo il loro progressismo era il traslato della decisione di mettere al lavoro, ampliare, universalizzare la noia e il malumore conseguente la posizione occupata nel discorso che avviluppava il loro stesso ceto d’appartenenza: è questa strana ansia di alcuni padroni nevrotici che solleva il lamento o la rabbia degli oppressi alla dignità politica universale della Sinistra. Il nome dell’ansia è mancanza: talvolta, la mania di aggirare la “mancanza-a-essere” spinge ad essere almeno antagonisti quando non si può essere protagonisti.
In generale i politici di professione, come gli occasionali leader politici, sublimano una voluttà d’essere amati da chi non si conosce, poi chi s’è visto s’è visto, mentre perdura centrale il desiderio per lo più inconscio di sostituirsi al potente signore di cui ci si elegge antagonisti. È un difetto nel rapporto esistente e fino allora relativamente funzionale, un difetto che a cercarlo si trova, la mancanza, quella che nel soggetto causa il desiderio e a cui bisogna pur dare un significato. Padroni mal riusciti e servi mal riusciti, semi-padroni e semi-servi, vanno talvolta a costituire, nella modernità, la classe media come unico e vero soggetto della politica che si riconosce in qualche partito programmatico di là di un irrealistico demos e possono immaginarsi come un insieme titolato. Magari cedendo (proiettando…) quella parte di sé che è la propria negazione a qualche strana categoria da intendere alla bisogna come terzo escluso, per esempio quella degli eretici, o del popolo innocente e pio, o degli Ebrei. O delle donne fino al secolo ventesimo. O degli immigrati.
Padroni mal riusciti troveranno sempre servi mal riusciti, in grado di tradurre il desiderio in invidia sociale o viceversa per renderla attuale ed attiva, ad alzare qualche bandiera ideologica e a sprezzare, da aspiranti padroni, la morte. Esempi estremi sono i martiri. Il discorso potrà essere rivendicativo o rivoluzionario ma, in quanto politico, vorrà passare dall’antagonismo al protagonismo come portatore di un discorso nuovo, un nuovo fondamento per il senso delle cose, dopo tutto sempre un “discorso del padrone” nell’accezione di Lacan, il discorso che stabilisce un codice per il godimento, il senso come “joui-sense”, cioè vuole civilizzare il desiderio pro domo sua.
Non sto giocando a dire che agli sfruttati non possano derivare vantaggiosi alleggerimenti dalla politica, o che non sia da perseguire, se appare desiderabile, l’equità di diritti e doveri, o che non si ponga una scelta tra civiltà e barbarie, voglio solo dire che, al di là della risistemazione dei legami sociali riferibili al potere, non esiste un autentico discorso politico della liberazione. Anche la parola democrazia è una di quelle parole ireniche fatte per indicare qualcosa che non c’è: vuole supplire al silenzio inquietante foriero di arbitrio naturale, primigenio, o di rivolta priva di contenuti “politici” e destinata a soccombere rovinosamente. La radicalità antipolitica della rivolta non si esprime nella lotta di classe con le sue strategie, si esprime nel motto degli anarchici, “né Dio, né padroni”, ma per renderlo inattuale basterà la presenza del leader carismatico, che non può avere solo funzione destruens per molto tempo, anche senza attendere il leader burocratico che i “Consigli”, o i soviet, generano inevitabilmente. Per questo, a chi gli chiese a bruciapelo se fosse anarchico, Lacan rispose bruscamente: “No, di certo”. Di solito la logica di un rivoluzionario non esce dall’alternativa “o servo o padrone” che legittima la padronanza in quanto tale: agli studenti del ’68 che lo contestavano “secondo la moda del momento”, come direbbe Totò, “a prescindere”, Lacan rispose in chiave perfettamente hegeliana: “Come rivoluzionari volete un padrone… l’avrete!”.
D’altra parte, la giustizia sociale, nobile utopia politica, se si realizzasse, dovrebbe passare attraverso qualcosa che appare immediatamente impossibile, la pacificazione dell’esistenza. Niente da fare, la liberazione dovrebbe essere insieme dei padroni e dei servi: insieme a morire, senza possibilità di scambi o sostituzioni.
Ciò non toglie l’onore a chi dà la vita, cioè vive, combattendo per la giustizia contro la prevaricazione in posizione di responsabilità soggettiva, ma è raro che i giusti eroi o gli eroi giusti agiscano per inclinazione nell’alveo del diritto e della politica, a dispetto, piuttosto. Non ricordo chi disse che nelle leggi è scritto per filo e per segno solo come fare a meno dell’etica nei diversi casi: un prontuario per trasgredire senza trasgredire, per farla franca.
La politica è essenzialmente riflessiva, il termine ha indicato quel settore della filosofia che pone come oggetto di studio il governo della polis, le forme dei legami sociali attinenti, la distribuzione dei beni e l’esercizio del potere, il che in pratica significa studiare le trasformazioni di ciò che determina i limiti della nostra libertà e della nostra sicurezza di vita. Secondo le intenzioni di coloro che a quei motivi presiedono.
Queste trasformazioni possono avvenire nella continuità, e sono meno facilmente discernibili, oppure per accelerazioni che le rendono evidenti: nel primo caso si usa parlare di civilizzazione (in senso neutrale, non nel senso ottimisticamente progressivo di Elias o di Toynbee) e nel secondo di rivoluzione, senza pregiudizio per aspetti più o meno spettacolari e cruenti, ma dovendo riconoscere che solo le civilizzazioni rendono stabili per lungo tempo i significati della trasformazione.
Bordiga diceva che le rivoluzioni non si fanno, si dirigono, come dire: bisogna che prima avvengano, poi basta amministrarle. Può darsi, ma allora bisogna chiedersi perché nella Storia sia così raro che una rivoluzione sfoci direttamente in una civilizzazione coerente con il suo primum movens. Va bene la pochezza politica del Direttorio, ma come la mettiamo con la comprovata sagacia sia tattica sia strategica di un Cromwell o di Lenin che, a differenza di Robespierre, si sono trovati con in mano le carte vincenti nel loro giro di gioco?
Abbiamo detto che le avventure volte a risistemare rapporti di forza e legami sociali, ovvero volte al restyling del discorso padronale ed oligarchico, avvengono in base e a seguito di supposizioni, ma le supposizioni, ahimè, sono sempre sbagliate per qualche aspetto, specialmente se non si prende in considerazione come variabile indipendente un godimento diverso dal godimento di beni misurabili e tradizionalmente riconosciuti che soddisfi i bisogni.
Una prima supposizione sbagliata è quella che immagina la libertà senza fare distinzione tra “libertà da” e “libertà di”. La gente gode nel liberarsi dalle istituzioni che limitano il desiderio, senza peraltro accorgersi che senza quei limiti il desiderio si troverebbe disorientato, privo di raffigurazioni credibili del godimento come “oltre”; cioè, fatto questo passo, ecco che si pone il problema della “libertà di”: poiché il senso è il nostro orizzonte, godere di fare o avere che cosa? Può anche verificarsi l’opposto, ed è più frequente, cioè che per conseguire la libertà di fare qualcosa si debba sacrificare la libertà da qualcosa: Per esempio è il caso della dipendenza dagli schiavi, oppure dalle tecnologie.
Ogni civilizzazione si prende il tempo per predisporre oggetti ideali di desiderio, veri in quanto elusivi, precari, passepartout immateriali implicati nel simbolico, nel linguaggio, funzionali per dare corpo alla speranza di un nuovo senso della vita anche non direttamente associabile a qualche posizione sociale, e oggetti falsi in quanto stabilmente reificati nell’immaginario, cioè feticci materiali consolatori. Entrambi però atti ad orientare il desiderio distraendolo dai veri nodi dei legami sociali. Ogni rivoluzione lascia invece le “masse rivoluzionarie” scontente, disorientate, inappagate dall’ideologia che le ha fatte muovere precocemente rispetto formulazioni autonome, così che restano disposte ad ascoltare qualsiasi nuovo discorso, purché promettente. C’è sempre chi non aspetta altro per re-istituire un senso delle cose che spieghi anche la scarsità dei beni che di solito sopraggiunge nella seconda fase di una rivoluzione (talvolta, se è un prete, sostitutivo di essi). Cromwell, per non parlare di altri, non poteva pretendere che il suo provvidenzialismo quacchero fosse accettato così alla svelta, in punta di spada; non basta tagliare la testa a un Re per cancellare il simbolo regio dell’equilibrio nello squilibrio dell’avere.
L’isterico dà fuoco alle polveri della rivoluzione che l’ossessivo spegnerà nelle parole.
Perché un cambiamento radicale possa avvenire e perdurare nelle forme sociali non basta che le forze contrapposte si trovino con una coscienza in sé e per sé in grado di animare la lotta, bisogna che le forze contrapposte si trovino a condividere una scappatoia, una via di fuga dal movente conflittuale, cosa possibile solo se tale movente non ha un significato esplicito, rimane in qualche modo misterioso. Qualcosa di simile al significante non compreso lacaniano, per esempio il sacrificio di Cristo o la virtù del mercato. Un extra-super simbolo che puntelli, di lato, il senso della novità.
Allora quello che non sanno fare le rivoluzioni mostrano di saperlo fare le civilizzazioni.
Due esempi che a questo punto vengono facili, il Cristianesimo come soluzione della crisi dell’Impero Romano e il Capitalismo come soluzione della crisi del Medioevo.
Il Cristianesimo in una prima fase ha il carattere di scontro ideologico irriducibile proprio delle rivoluzioni ma riesce invece a trasformarsi in una civilizzazione perdurante coinvolgendo in un senso nuovo della vita ogni strato di popolazione. Masse antropologicamente ed economicamente composite e trasversali avvezze a una crudeltà inimmaginabile, al godimento della disperazione cruenta, si convinsero, meglio, si persuasero che un nuovo stile di godere fosse possibile e conveniente. Si convertirono le matrone romane, le generazioni liberte detentrici del sapere, gli schiavi, i guerrieri delle province delusi dal dio Mitra e dal loro imperatore di turno, gli imperatori stessi e le regine dei pirati, i principi barbari, gli Aldi e le loro mogli serve. Tutti. Tutti a confluire nel nuovo discorso della Chiesa che diventerà il supporto simbolico dell’immaginario medievale, tra sembianti e fantasmi.
Un’epoca definita buia, però un’epoca in cui il signore e il servo condividevano la stessa fede.
Era successo che con il Cristianesimo si distribuì qualcosa che non si può misurare e che rimanda perennemente ad altro, al godimento di trovarsi padroni della speranza che un senso della vita ci sia. In un’epoca in cui eclisse di senso e labilità di legami sociali, depressione e sfiducia impedivano di combattere e di mettersi al lavoro, alcuni che non cedevano sul desiderio esibirono in corpore vili il paradosso della disperazione che si converte inspiegabilmente in speranza.
Cristo non c’entra. Gli avventurieri che si proposero come padroni del senso nel mondo cosmopolita romano si chiamavano Paolo, Giustino, Clemente, Origene, Tertulliano, poi Ambrogio, Agostino, Benedetto e infine Gregorio: lo fecero con la parola e con la penna, ma non sarebbe mai bastato se alcuni di loro e tanti altri e, non dimentichiamolo, tante altre, non avessero testimoniato scrivendo il senso con il sangue. Com’è che vanno a morire così? Cosa c’è di così forte in loro? Cosa desiderano, che non sia la morte? Ci deve essere un segreto… Ognuno per sé aveva questi pensieri e scommetteva sul cielo o sulla terra, alla Pascal.
“l’Immaginario”, dice Lacan, “dà consistenza al Simbolico…”. La rivoluzione vinse molecolarmente nell’immaginario di ciascuno, la Storia non conosce altre vie di trasformazione, anche le “idee forza” da sole, ritroverebbero nel sociale molare la loro origine dissipatoria e si diluirebbero ben prima di tradursi in weberiani “tipi ideali” se mancasse il Reale del godimento soggettivo individuale: niente di umano accade in altra maniera.
Solo dopo il Concilio di Nicea ci furono le conversioni di massa, alle quali provvide per qualche tempo ancora la semplificazione dottrinale ariana, ma esso fu un punto d’arrivo, non di partenza. L’oggetto escatologico, la fede, un significato offerto come misterioso, fu accolto perché consentiva un’alienazione nel suo senso e nella sua promessa che facesse dimenticare a ciascuno l’orrore dell’insensatezza. Costantino inaugurò la commistione di potere (delle armi) e fede che divenne la ragione politica da allora per millequattrocento anni. Al monachesimo fu affidato per un millennio il compito di dimostrare la sufficiente funzionalità del senso cristiano della vita sul versante della sicurezza e della produzione, finché non apparve sulla scena della politica un altro genere di monachos, un altro uomo solo al cospetto di Dio, il self-made man. Lutero ne divenne il primo campione, ma intanto non rinunciò alla protezione dei Principi.
Il Capitalismo ebbe una storia meno spettacolare del Cristianesimo nei suoi esordi.
I millenari signori del discorso che, a strette condizioni, agevolavano l’esercizio del desiderio, se non quello del godimento, principi e preti, rispettivamente con l’offerta del limite terreno e carnale e con l’offerta del senso divino, non agevolavano peraltro lo scambio dei beni, se ne contendevano anzi il possesso con trattative, scambi nuziali e guerre continue. A parte la famosa pleonexia, contribuiva a ciò sia una scarsa attitudine a misurare i beni stessi sulla base dell’oro per agevolare lo scambio, sia lo stallo di opportunità per l’antica economia predatoria, come le Crociate dimostrarono. La moneta d’oro significava cambio fisso per mantenere poveri i poveri e ricchi i ricchi entro una stabilità tranquillizzante per un’umanità orientata all’escatologia, un po’ fuori di sé per stare fuori dai conflitti.
Non mancò tuttavia chi con l’oro ci sapesse fare. Mercanti e banchieri per lo più evitarono di concorrere nelle contese interne allo Herrenschaft, ma l’oro ha qualche vocazione simbolica tra lucore in cui specchiarsi e l’inalterabilità nel tempo in cui specchiarsi pure, ed era inevitabile che intorno ad esso si modificasse non poco il discorso del senso così che l’oro, da rappresentante del potere e misura del valore delle cose, anche divine, passò pian piano ad essere misura del valore delle persone al di là del blasone ereditario. Tuttavia, il fascino dell’oro, proprio per la sua misurabilità in peso, non aveva la plasticità significante, l’ambiguità misteriosa, magica, adatta a farne soggettivamente, cioè per tutti e nessuno, un “oggetto oscuro del desiderio” e un oggetto feticcio universale e significativo al punto di poter fungere da risposta alle diversissime domande su cui possa fare perno il desiderio.
Finché non si creò, per aperture apparentemente fortuite (se furono anche climatiche, la “Primavera” di Botticelli ne fu l’icona esemplare), il mercato universale monetizzato, un nuovo discorso in cui l’oro si occultò dietro il puro prezzo scrivibile sugli oggetti, puro limite provocatorio per il desiderio e puro indicatore di godimento. Il lusso divenne definitivamente un’ideale a sé stante passando dal concreto all’astratto e ciò piacque molto ai borghesi delle città che vi videro la riedizione di un’eleganza cortese adattata a loro. Il Senso rinascimentale fu la bellezza, la promessa di felicità che non è mai mantenuta.
Troppa purezza, diciamolo subito. La violenza e l’escatologia medievali, coniugate, rendevano dialetticamente evidente il problema del corpo che, sia detto con Lacan, è il vero unico nostro problema; fu per esempio Hieronymus Bosch a evidenziarlo, mentre fin dai suoi esordi la modernità tenderà a negarlo o a banalizzarlo: confondendo il Reale con la realtà (una rappresentazione), confinerà nella virtualità inconscia tutto ciò che non è puro simbolo con il risultato di veder riemergere il Reale della “sostanza godente” nella trasgressione o nell’angoscia. O nelle macchine. La meccanica classica raggiunse un apice insuperato nel ‘700 e forse ispirò la meccanicità erotica distruttiva del Divino Marchese.
La modernità non ha niente da far rappresentare alle mistiche del genere di Teresa d’Avila, al massimo di Teresa di Calcutta, l’attivista.
Comunque, la produzione mercantile universale in espansione fu il discorso che si candidò a risolvere l’incongruenza che diveniva evidente per lo iato crescente tra economia soggettiva del senso ed economia oggettiva dei beni. Si candidò al di là della sagacia dei nuovi attori politici, ansiosi di salvare il valore dell’oro nel conio della moneta, che non ebbero né la tempra politica di maestri come Agostino d’Ippona né di scolari come Tommaso d’Aquino, ansiosi questi di salvare direttamente il valore del Verbo e del senso.
Succedeva che, anche a seguito delle scoperte geografiche, non solo alcuni sovrani ebbero più oro dei banchieri fiorentini, ma infine ci fu più oro che cose da comprare; il loro prezzo dapprima aumentò ma poi gli scambi si restrinsero in una pericolosa inerzia, pericolosa più oggettivamente per l’oro che soggettivamente per gli esseri umani, sempre disposti a tornare dagli scambi alla guerra, pur tra carestie e pestilenze.
Non si sa chi ebbe l’idea geniale, non ci fu un Cristo, ci furono invece delle famiglie nelle Fiandre tra il XVI e il XVII secolo: si incominciò a investire per creare opifici ed assumere operai cui dare del denaro da spendere per comprare gli stessi beni che producevano vendendo il loro lavoro. Il prestatore d’opera credeva di barattare poco o tanto tempo di vita, ma, poiché il tempo non è cosa che si possiede, barattò sé stesso. In ogni baratto c’è un aggio e un dis-aggio occultati per uno dei contraenti, plus-valore o, secondo Lacan, plus-godere.
Pian piano, attraversando i due o tre secoli successivi, le cose funzionarono benissimo. I problemi di sovrapproduzione si risolsero ove possibile con la moltiplicazione qualitativa dei beni, con la loro obsolescenza soprattutto nell’immaginario, con sempre altre esche per i desideri mutuati con bisogni per sostenere la domanda, ma non senza l’eterno ricorso alla guerra (qualcuno crede che la crisi finanziaria del ’29 potesse essere risolta dal New Deal di Roosevelt senza la Seconda guerra mondiale?) Al desiderio fu infine risparmiato ogni assillo che non fosse il prezzo altalenante dei suoi oggetti nei cicli economici tra contrazioni ed espansioni ora della domanda ora dell’offerta che coinvolgeva egualmente consumatori e produttori. Nuovamente un’epoca in cui il signore e il servo condividono la stessa fede!
Tra essi si erge la figura tragica del self made man che si tiene un desiderio eccentrico per non essere disorientato: ora l’Unico di Max Stirner, ora business man, ora Napoleone. “Ei si nomò, ed arbitro s’assise in mezzo a lor”. Arbitro o manager, nel grande gioco del capitalismo cui si riduce la modernizzazione. Se prima era un re a rappresentare il godimento per il popolo, in questa funzione essenzialmente fallica del senso non sarà qualche presidente della repubblica a sostituirlo, ma l’imprenditore di successo, il tycoon, e il testimonial del lusso.
Tornando all’avventuriero corso, egli va oltre la sua funzione monarchica, impone la sua psicologia al mondo come ideologia: è l’invenzione del bonapartismo come paradigma politico e del personalismo come esercizio etico. È qualcosa di molto diverso della voce in capitolo che ebbero i signori rinascimentali (Cosimo I, primo della dinastia medicea, prima era almeno banchiere, Napoleone non era nessuno) o i monarchi illuminati, disposti ad ascoltare, rispettivamente, gli umanisti o gli illuministi, tutta gente che ci sapeva fare con il dubbio al punto di compiacersi a produrlo. Invece il protagonista della contemporaneità, se non è un officer burocratico è radicalmente individualista e autoreferenziale nella cornice del “pensiero unico”, dopotutto la fede per cui ogni desiderio può avere la sua risposta oggettuale alla cui produzione ognuno può porre mano se appena assomiglia all’architetto Roark, l’eroe suprematista della Ayn Rand impersonato da Gary Cooper nel film “La fonte meravigliosa”.
Dapprima la fabbrica affumicò la cattedrale, poi il centro commerciale si propose come santuario per i pellegrini. L’unica novità veramente notevole fu l’apparire di un godimento slegato dal senso e in fondo anche dal desiderio, di scorrimento pulsatorio passivamente aperto ad ogni suggestione fantasmatica e maniacale, che è il vero ed unico supporto del sistema. Basta oggetti oscuri della trasgressione! Il desiderio prese finalmente la via luminosa e chiaramente segnata che si dirama tra il lusso, riconosciuto paradigma di autenticità e verità, e i gadgets che calmano i nervi. Ma anche tra le macchine per il godimento. Erika Jong consiglia alle massaie di masturbarsi sullo spigolo della lavatrice in funzione di vibratore.
L’alienazione moderna consente la ri-trasformazione del desiderio in bisogno, una de-sublimazione a legittimare il passo successivo, qualche soddisfazione chimica o il suo rovescio, la distruttività come risposta all’insoddisfazione; faccende più trasversali di quanto si crede, che la politica nei nostri giorni e nei nostri dintorni faticherà a gestire ora che non c’è più né espansione come virtualità di spazio mercantile né espansione come virtualità di tempo ovvero demografica, in presenza peraltro di crescente concorrenza internazionale tra forme diverse di capitalismo. Né sembra che sia la nostra forma occidentale ideologizzata come democrazia liberale a godere della migliore salute. L’avventura globalista dimostra in tutti i casi la perdurante vitalità rivoluzionaria del capitalismo in sé e per sé. Sa sparigliare e trova un rimedio a tutto: adesso con i tassi bassi ha spostato l’interesse verso i prestiti al consumo che impoveriscono i meno poveri e per tenerli buoni ha reinventato lo schiavismo concorrenziale di esseri umani e macchine.
Attualmente sembra che le cancellerie occidentali, supine rispetto le esigenze della globalizzazione e della tecnologia, che invece la finanza tratta disinvoltamente dopo aver sostituito al capitale la fiducia, una fede come un’altra, abbiano una sola funzione politica: gestire un impoverimento sostanziale della classe media laddove esiste e gode come vuole il capitalista (un algoritmo talvolta invece che un soggetto) con il minimo possibile di derive belliche, cioè coltivando il sogno della fine della Storia come essenziale sogno della Politica. Va bene, resta una reverie. Meno bene va se sono i parlamenti, luoghi in cui si parla finché si può, a morte, come si dice, a sembrare superflui alle cancellerie. Il che sta avvenendo, come una Nemesi della politica nelle democrazie in questa fase storica in cui la concorrenza internazionale è più forte che nei due periodi che precedettero due guerre mondiali, tanto che ogni governo è “tecnico” e può solo amministrare egoismi contrapposti.
Situazioni acerbamente concorrenziali che inducano, in fatto di produttività, ad accelerazioni totalitarie in qualche nazione sono sempre possibili.
La politica deperisce perché ci sono “cose più importanti” (nella vendita) che assillano i suoi tradizionali soggetti, ma anche perché quelle “cose più importanti” (nell’acquisto) appaiono tali nello spazio spettrale e labile che si è aperto a seguito dei nuovi stili di comunicazione in cui tutto può essere vero o falso indifferentemente, così che la delusione per il dialogo tra chi compra e chi vende (e per il dialogo in generale, in sé erotico) trasferisce il desiderio nel campo esclusivo di un Immaginario impolitico e populista più permeo al Reale che al Simbolico. Vi alligna il presagio e il differimento della tragedia come risvolto della lunga pace europea nell’angoscia del ceto medio messa in forma come paura di tutto e di niente dal Grande altro della pubblicità e della propaganda, paura che non si sa quali vie di fuga possa prendere. Fatto salvo, per inciso, il vecchio delirio calvinista per cui la povertà è una colpa e il godimento volgare se gratuito. È il gioco del prete, vecchio come il mondo, instillare paura e subito somministrare il rimedio (a pagamento).
La politica ha perso credibilità come agenzia in cui si pensi di poter esercitare qualche soggettività, a parte il momento sempre più insulso del voto, da quando siamo diventati definitivamente “la folla solitaria” di Riesman, esseri connessi ed isolati nello stesso tempo, fragili a fronte dei messaggi concentrici cui sono esposti.