Non c’è un romanzo, un’opera letteraria di qualità, a parte qualche arcaica tragedia greca e qualche sceneggiatura per film horror, che narri il pathos di un figlio che uccide suo padre consapevolmente nella realtà. Amleto non può che uccidere in Claudio, il vero fantasma edipico, sé stesso, non il Re.
Perfino Freud nei Karamazov trova solo nel servo Smerdjakov, figlio mai riconoscibile simbolicamente, cioè non vero figlio e inoltre pazzo, un sostituto del vero parricida “antropologico” che, se ci fosse stato, neanche sarebbe stato il focoso Mitja quanto l’amletico Ivan.
È comprensibile, se si dà il credito freudiano al mito psicanalitico dell’Edipo: esso torna anche come tabu letterario attraverso l’universale senso di colpa per il crimine inconscio. L’opera letteraria, d’arte, qualora narrasse il parricidio per filo e per segno, non avrebbe l’utilità dell’arte, non porterebbe a un oltre, ma a un inconscio già stato, esaurito in tutte le possibili forme immaginarie e simboliche risolutive di un dramma onirico, delle quali la forma fobica è la più comune. Del tema un poeta temerebbe semplicemente la futilità.
Diversa è la spiegazione per un’altra rarità in letteratura, il romanzo scritto da una donna che imperni la narrazione su un protagonista maschile. In questo caso si tratterebbe più di un evitamento che di una inibizione, a riconoscere, narrandola per filo e per segno, l’essenza del desiderio fallico costruito sul significante “la Donna” che, sdoganato definitivamente dal romanticismo, qualora venisse giustificato in una antropologia (ogni romanzo tende anche a questo), depriverebbe una donna, autrice o protagonista, della sua specificità soggettiva. Non solo verrebbe meno la qualità umbratile, altra, del desiderio femminile che giustificherebbe la presenza di figure femminili nel romanzo e di cui un romanzo dovrebbe rendere conto, ma si affaccerebbe quel destino di “devastazione” come amputazione di quella stessa qualità inessenziale, un destino storicamente triviale all’ombra del Fallo, cui alluse Lacan quando gli fu chiesto quale fosse il corrispettivo nel campo femminile di quel sintomo che, come ebbe a dire, una donna rappresenterebbe per un uomo.
Freud aveva ben presente l’esito narcisistico come non del tutto negativo nella dialettica della alienazione – separazione per una piccola donna. Peculiare il suo realismo: “Crescono, soprattutto se sono carine…” supponendo, qui è Lacan che parla, di poter essere il Fallo in luogo dell’averlo.
Niente di male se continuano a supporre di poterlo rappresentare (teatralmente) per un uomo, senza cadere nel delirio di incarnarlo a fronte dell’Altro o dell’umanità intera, cioè a fronte del linguaggio, sfrontatamente a scanso del suo senso primario di castrazione simbolica.
L’errore (il delirio) di credere all’esistenza della Donna è tutt’altro che solo maschile, è un fulcro di nevrosi ossessive ma ancor più isteriche; tuttavia, Scarlett, l’eroina di Margareth Mitchell, nel romanzo che tanto piace alle donne, credo, per l’assenza in esso della Giustizia Divina, può essere una stupidina e una cattivella, narcisisticamente egoista e auto-protettiva, ma non cade mai nell’illusione fatale di poter incarnare un ideale intersessuale. Lo dimostra il fatto che in lei restano costanti vaghi sentimenti di invidia e ammirazione ma in pratica anche di solidarietà verso Melanie.