Accettare di essere lacanianamente “l’una in meno” per lui, cioè una sottrazione dall’insieme fantasmatico che ha il nome di Donna per non avere il nome della mamma, e che lui sia “l’almeno uno” per lei, cioè il rappresentante di una vera categoria all’insegna del Fallo, sta nella saggezza di una donna che potrà sempre dire, spenti i fuochi della passione: “Proprio contenta non sono stata, però mi sono accontentata”. Con fierezza, sapendo di poter rappresentare il non-tutto metafisico, non con la malinconia con cui potrebbe dirlo un uomo.
Sta di fatto che una donna c’è per un uomo in attesa che ci sia la Donna, il fantasma più comune a supporto del sintomo. C’è di mezzo la bellezza con il suo rovescio mortale che ne fa una promessa di felicità che non si può mantenere, come illustra l’iconografia medievale delle “Vanitas”, mentre questa sorta di illusione/delusione è meno determinante a livello del desiderio nel versante femminile che sconta, come sappiamo, una doppia delusione edipica.
Secondo Freud è un fatto quasi “naturale” che il travaglio simbolico edipico sul versante femminile possa condurre la piccola donna alla soluzione caratteriale narcisistica. Ciò può andare benissimo se c’è equilibrio tra amore di sé e autostima, meno bene se questo equilibrio non c’è, ma il discorso, specificamente clinico, sarebbe troppo lungo.
Quelle che vanno sotto il buffo nome di “vere donne” sono quelle che vogliono reggere il pericoloso (nel momento della delusione fallica rischiano grosso!) gioco di ruolo nella parte della Donna assecondando il sintomo che rappresentano per l’uomo. Neanche è detto che siano delle civette, anzi, fanno di tutto per esorcizzare la “devastazione” che incombe per avere reificato il loro genere nell’indiscutibilità del Fallo.
Ho il sospetto che “la belle dame sans mercy” di Keats sia solo una di tante o di poche negate al “saperci fare” con cavalieri troppo casti.