117. METAFISICA

 I maschi occidentali hanno una certa attitudine a speculare su due insensatezze, su un mondo senza di loro e su sé stessi senza il mondo. Dipende dalle fantasie attribuite alle loro mamme: la metaphisique ou la femme fatale. I filosofi invece continueranno a litigare su monismo e dialettica finché non prenderanno in considerazione l’alienazione-separazione infantile secondo Lacan.

 In noi non manca quasi mai il sintomo della metafisica che di solito si acquieta in qualche escatologia o in qualche scientismo paranoide, sublimazioni sintomatiche che peraltro si possono forse trovare nel filosofo di professione che fa dell’Assoluto il suo oggetto sintomatico, come dire, in termini lacaniani, la morte come “oggetto piccolo (a)”: che altro se non il mondo senza di lui?

 Ogni scelta professionale, qualora si tratti di libera scelta e si sia faticato per essa, può essere interpretata in senso freudiano come sublimazione di una fissazione infantile perversa, un compromesso inconscio tra libido e ideale; viene allora la curiosità, riguardo il filosofo, di quale godimento perverso infantile si nasconda sotto la doppia e successiva dinamica, del sintomo generico e della sua sublimazione professionale.

 Si può supporre che l’archetipo infantile del filosofo sia il bambino che, annichilito, spia di nascosto la mamma che si spoglia, quando probabilmente potrebbe vederla nuda in pacifica presenza. Pertanto, si tratterebbe di un godimento dello sguardo, cioè del primo sapere, godimento di non esser-ci se non passivi nella visione che diventa tutto il resto quando ci si è fatti nulla. A riprova che è lo sguardo l’oggetto che meglio rappresenta “das Ding in sich”.

 Ma la sua universalità voyeuristica e blandamente sadica non rende ragione di un destino così particolare. Per esempio, la sublimazione sadica in un chirurgo o di uno psicologo, che risponde alla vocation perversa di trattare il soggetto come un oggetto, è facilmente credibile, mentre appare strano che la passione diffusissima di immaginare qualche Altro che sappia dell’Altro, centrale in un atteggiamento religioso e in teologia, che nel caso del monoteismo è passione dell’Uno, possa determinare la scelta professionale del filosofo, di sicuro oggi elettivamente laica. Chi vuole spiare la Cosa in sé, o va verso un sapere impossibile (della Donna) o verso una fede.

 Forse l’Altro dell’Altro che un filosofo cerca è il tempo che perde a fare il filosofo e che ha illuso e deluso sempre tutti i suoi godimenti infantili come ragione del tempo: facendo così di Cronos l’altro di Edipo, tra Tebe e Colono.

 Già che ci siamo, viene anche da chiedersi che genere di fissazione possa sottostare al desiderio di fare lo psicanalista (che è ben altro del desiderio dello psicanalista, sicuramente implicato in una sublimazione di marca isterica, socratica): forse quelli che vogliono intraprendere questa professione che lo stesso Freud definisce “impossibile”, sublimano una loro speciale erotomania, essenzialmente la passione di farsi oggetto di desiderio di un altro o un’altra per goderne castamente, si spera, il godimento, passione che si realizzerebbe nella forma doppia e talvolta unificata del collezionismo maschile e della disponibilità materna femminile. Padronanza e seduzione narcisista, seppure sublimata e sottomessa a un copione. Non sembra una sublimazione molto diversa da quella dell’attore o di colui che si dedica alla politica, senza però il particolare risvolto, essenziale in entrambi questi due casi, di volere essere amati dagli sconosciuti.

 Va ribadito con più forza: il desiderio dell’analista è addirittura l’opposto del desiderio di diventare psicanalista, che va dismesso in un’analisi preliminare che (forse) sarà didattica, affinché al suo posto possa realizzarsi il desiderio che ci sia “Die endliche und die unendliche Analyse”. Un destino in cui non manchi la mancanza di una forma definitiva e pertanto il sintomo possa evolvere sia in una metamorfosi sublime sia in una passabile anamorfosi della verità. In fondo uno psicanalista, come l’artista, desidera servire da interprete depersonalizzato, puramente professionale, dell’Altro, ma in tutta la sua inconsistenza.

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