Sarebbe troppo facile sostenere che la modernità, volendo disfarsi della tradizione come di un effetto frenante, rischia di buttare con l’acqua del bagnetto, cioè con l’immaginario eccedente che consiste di superstizioni ed etiche normative ormai inerti nella struttura, anche il bambino, cioè quello che di buono vi può essere nella tradizione come eredità simbolica, per esempio il buon senso che mostra la sua attualità nei proverbi, o il valore del dialogo e della diplomazia che privilegia la commedia invece della tragedia, o semplicemente il lusso di esprimersi bene.
È addirittura possibile che butti il bambino, il quanto di simbolico costitutivo della realtà, mera impossibilità di una sua narrazione universalizzante che risponda al desiderio inconscio, e salvi invece accuratamente l’acqua sporca, cioè il quanto di immaginario regressivo psicotico imperniato sul “Reale possibile” della perversione. Nessun moralismo, non sono in questione valori, solo la fragilità dei sembianti. Che butti, per esempio, il genere che riunisce parole e segni del desiderio, per sostituirlo con qualche inedito significato del Fallo di là dei misteri, cioè da segno della differenza a differenza in sé, immaginaria nella pretesa impudica di essere reale.
Che voglia eliminare, con il burka o il busto a stringhe o la ben più misteriosa differenza d’abbottonatura destra/sinistra ordinata dal genere, anche il perizoma antropologicamente universale che il momento della castrazione simbolica, cioè della civiltà, ha imposto all’immaginario come pudore, un discorso sottrattivo per coprire il sesso con il senso. Lungi dall’offrire all’attenzione il sesso in quanto ineluttabile differenza e naturalità sottraendone il senso ludico dello scambio improduttivo, la modernità offre la differenza in quanto differenza, al di là del senso, produttiva di non si sa cosa. Sarebbe come voler associare al genere un estro senza cicli e stagioni ma anche senza conseguenze biologiche, peraltro mai esistito negli animali sessuati appena il coito fosse possibile.
D’altronde il genere, che non ha grandi utilità nel prestatore d’opera, può averne nel consumatore come un indicatore per la programmazione dell’offerta di beni, ma quello che resta, il sesso, nella pretesa di reale naturale può agire solo come una ideologia sulla cui futilità si possa dibattere.
Ivan Illich, sublime isterico, ha colto la questione scrivendo precisamente “Il genere e il sesso”. Le donne avevano più da guadagnare nell’essere rappresentate come devote di Cibele o Iside che come personalità avulse, prima che libere, da un ruolo esclusivo quanto immaginario loro assegnato dalla divisione più tradizionale del lavoro, dicesi procreazione, pertanto cadute nella confusione dei ruoli dovuta al discorso della modernità. Personalità destinate a sopravvivere alla doppia fatica di essere donne nel sesso e nel genere, aspetti entrambi eletti a sembianti fallici.
Già le dame oggetto dell’amor cortese ebbero più svantaggi che vantaggi dalla folle sopravvalutazione che attribuiva loro un genere inesistente e più inservibile della verginità delle vestali. La Donna è un’invenzione minacciosa per il femminile, nella sua astrattezza priva di qualità per il fatto di averle tutte: il tutto e niente della Donna è fatto apposta perché anch’esse, le donne, abbiano, socialmente predisposto per l’ideale dell’Io, un modello impossibile come sesso e godimento definito. L’uomo vorrebbe che una donna fosse dea e buco, madre, amante focosa, infermiera, serva, bella, brillante, riservata, previdente, laboriosa, e chi più ne ha più ne metta. Neanche a fare i salti mortali.
Giunge a soccorso il capitalismo che la inserisce nella produzione con il ruolo bifacciale e unisex di prestatore d’opera e di consumatrice, che non le risparmia egualmente molta fatica ma almeno la esime dal soddisfare all’impossibile. Le dona il crisma di persona, gli emblemi femminili diventano un optional da comprare nel libero mercato, ma il sesso diventa un debito residuo ingestibile senza qualche improbabile vademecum e un credito inesigibile per il partner, che l’ha preceduta nel farsi persona accettando di essere definito in un ruolo produttivo. Anche per questa persona di genere neutro il fallo diventa un optional costoso, se insiste a rappresentarlo o a farsene portatore. Se prima donne e uomini dovevano vedersela con il fantasma della Donna, ora devono vedersela con il fantasma del sesso ideale fondato su una differenza insensata, simmetrica quanto sfumata nei particolari.
Anche la bellezza delle donne è uscita dai canoni e dai cardini. Ciò risulta evidente nella pubblicità del lusso che presenta i tipi più improbabili di ego femminili in fuga dal genere femminile tradizionale e per i quali bisogna prescindere da ogni indicazione riguardo al loro desiderio all’infuori di quella inscritta a chiare lettere nell’advertising che le accompagna. Androgine, aereodinamiche, corrucciate, assorte in sé stesse, lo sguardo rivolto a un aldilà inumano, fisionomie molto spesso, chissà perché, di tipo pannonico felino. Sembrano poco disposte ad accogliere la domanda, se non quella perentoria che va diretta allo stupro. Sorelle di Jessica e Barbara del filmaccio di Vanzina, il loro corpo perfetto perché a-sessuato, di per sé un niente sotto il vestito intercambiabile da mascherata, si ecciterà solo nella tragedia che è lo scarto inevitabile dell’”omnisenso” ideologico del capitalismo.
Il sesso ha la disgrazia di diventare il vuoto del secchio vuoto dell’immondizie se si toglie il genere come elucubrazione su di esso.
L’incertezza del desiderio di fronte all’enigma della sfinge, al “Wunsch eines Weibes”, alla donna che vuole e chiede, può trasformarsi in desiderio di incertezza, come dire di impotenza erotica. Da negare ritirandosi nella masturbazione reale o simbolica ma comunque ripetitiva o in altre “perversioni” di meno ordinaria tradizione.
Tante possono essere le risposte alla domanda di Freud rimasta inevasa: “Cosa vuole una donna?” Tante cose, ma una è la più difficile da formulare per essere la più ovvia: “che si parli!”. D’amore preferibilmente.
Per l’amore moderno vacillano i puntelli immaginari e simbolici del genere, sembianti erotici non ancora scaduti, spesso reificati e finalizzati come feticci che fanno rimpiangere l’inganno, l’aura di magia, ma anche le parole dell’amore e del pudore destinate a restare parole che consentano al sesso di accedere all’Altro e di farsi Altro per una eccitazione che possa essere goduta, inafferrabile significato sessuale, anche senza l’urgenza della scarica. Il senso dell’amore carnale è nel corteggiamento, nella seduzione che fallisce, nell’eccitazione perversa o nel rispetto? “Come si fa ad avvicinare eroticamente una donna rispettandola?” Alla prova l’amor cortese o è più sessuofobico o più feticistico di ogni altro genere di amore.
Si vuole sempre far fuori la mancanza, anche da parte delle donne, insieme con il sangue mestruale. Un’impasse che va di pari passo con la tentazione di superarla extra fines, in qualche perversione post-moderna, non ordinaria, un tuffo, per la metafora d’inizio, nell’acqua sporca del bagnetto a sostituirvi il bambino, l’umano fra-intendimento simbolico, l’accordo sulla differenza. Via dal disagio della civiltà, in retour alla Cosa ermafrodita. Per intraprendere un altro sentiero, verso quel postumanesimo che sta sulla bocca di tutti i filosofi della contemporaneità senza che si possa minimamente arguire di che si tratta (a parte un sicuro coinvolgimento con la sempre più pervasiva Intelligenza Artificiale…)
Allora l’amore in grado di reggere l’impatto con la modernità è sembrato a fior di scrittori moderni l’amore estremo, incestuoso seppure ancora fraterno/sororale, come quello impotente e mortifero di Leonardo per Bianca Maria in “La città morta” (pretenzioso rovescio dell’”Antigone”), oppure come l’amore dell’incesto en philosophe tra Ulrich e Agathe. Oppure come l’amore nero di Georg Trakl e Grete che realizza l’inespresso di Usher e Madeline o di Edgar Poe e Virginia-Annabel.
Non sarà che questi amori invece di vivere nell’eccitazione trasgressiva vogliano vivere la novità di un sesso preter-erotico, insensato nella simmetria? Senza vie di scampo nella complicità amorosa dell’eccitazione erotica che dimostra come dopo e oltre il trauma anche l’erotismo sa sparigliare i significanti? Sarebbe l’opposto di quel particolare punto di arrivo alternativo alla sublimazione, di cui Lacan vede la possibilità, attraverso Joyce, di sposare il “partner sintomo”. Sarebbe, all’opposto, tacitare alla radice, ignorandola apposta, la sua causa traumatica e incestuosa. Rinunciando a rivivere sperimentalmente il tempo antico che fu prima delle parole e sarà dopo di esse. Se per le donne moderne l’orgasmo è stato un assillo, non lo è più per quelle postmoderne, al massimo un optional usa e getta.
Forse nient’altro che l’amore realizzato nell’ermafrodito platonico, un punto di mortale poesia, di mortale biologia e di mortale cosmogonia, “un’enormità”. Un tentativo di sfuggire al sesso inevitabilmente “altro” fondando un sesso “senza problemi”, ideologico e ginecologico. Qui non si tratta più del caso universalmente diffuso di sesso senza amore, ma di qualcosa che va molto più in là: l’antica passione per l’Uno. Non vi andrebbe molto lontano neanche l’invenzione del giusto sesso, pura “pere-version” che può realizzarsi nell’amore “uxorio” (che Jones attribuiva a Freud), sempre in bilico tra comfort e sconforto nell’equilibrio della sublimazione. Forse una sintesi triadica hegeliana che voglia pacificare l’irriducibilità scabrosa del due.
Ma no! Si tratta invece di qualcosa di assolutamente inedito in campo umano: sesso senza inconscio! La perfezione post-borghese, post-moderna, post-tutto.
Non per niente la superstite eroina del sesso, la moderna regina dell’amore è la donna cui dell’amore non potrebbe fregare di meno, un problema in meno. Non è più Carmen né Claudia Chauchat che almeno per un po’ amano blandamente coloro che le amano, è “la principessa lucertola” cui accenna Adorno in “Minima Moralia” (-108), oltretutto non immorale come la favolosa cortigiana che, in fondo, insegnava l’amore, bensì amorale “come alcune bestie che sembrano non occuparsi di noi, come i gatti e i grandi animali da preda”, per citare Freud sul narcisismo. Tuttavia, la proletaria Lisetta del racconto di Theodor Storm riportato da Adorno è sì aliena dall’intrigo romantico che rimanda al mittente, al borghese Paul, ma, se sceglie giocoforza la prosa, non è detto che non abbia altra soggettività sentimentale. Le sue sorelle borghesi più moderne, vestite peraltro di “stracci” costosissimi, sono aliene da poesia come da soggettività, allora ci sforziamo di mettercene almeno un pochino per sopportare il reale del loro sesso altro e uno, deficitario ma nello stesso tempo allusivo di qualcosa che potrebbe non mancare di nulla.
Ma è subito scacco: la donna del Reale senza le qualità della parvenza, fatta reale nel sesso nudo e crudo, sacra perché non “spendibile”, potrebbe argomentare Agamben… Ma no, sacra perché igienizzata, deodorata, balsamizzata, approntata per il sacello e pertanto sottratta all’incompletezza del mondo…
Una insopportabilità di cui Sade, in triste anticipo sulla modernità, si vendica sul corpo di Justine per poterne fare “la notre interessante heroine”.
Forse gli omosessuali, maschi o femmine, proprio al riparo dal fantasma del Reale sessuale, ritrovano il genere e la possibilità dell’amore nell’unica sua maniera d’essere, come condivisione di mancanza ovvero di due diverse mancanze.