L’assenza di una legge in cui siano scritti i termini di un’intesa che renderebbe l’incontro o lo scontro sessuale un rapporto senza resti, pacificante, ha come corrispettivo una legge, questa sì perentoria e priva di sbavature, che potrebbe essere scritta così: ogni innamoramento è fallimentare, porta in sé i germi dell’invidia che potranno trasformarlo prima o poi in odio e che impediscono un’autentica, non velleitaria corresponsione di amorosi sensi.
Ci si innamora quando ciò che manca al nostro Io ideale affinché appaia perfetto appare, ad occhio, a portata di mano seppure in possesso altrui. In un altro, si tratti di “Animus” o di “Anima”, per dirla con Jung. Ciò che possa ovviare alla mancanza originaria e fondamentale, quella che ci ha umanizzati indifferentemente se bambini o bambine, mancanza a essere un essere di natura; la quale mancanza, quando dal soggetto è trasferita all’Io, è vissuta come deprivazione di soddisfazioni che la natura dovrebbe elargire e a qualcuno sembra elargire.
Quanto gioca e di che genere è l’invidia in chi vuole essere l’altro per impadronirsi del suo supposto godimento senza rinunciare alle proprie prerogative? E non è l’invidia il precursore logico dell’odio? Ogni moto dell’anima deve vedersela con il suo rovescio, ma la massima evidenza di ciò è nell’amore. È il Romanticismo a negare e nel contempo a sottolineare questa evidenza. Ne parlano le canzonette, ne parla la cronaca rosa e del pari la cronaca nera.
L’innamorato o l’innamorata dice: “Ti amo”, ma l’altra o l’altro, dato che l’inconscio non si fa ingannare, capisce quello che è giusto capire: Amami”. È la pretesa dei bambini di essere amati “a prescindere”, come direbbe Totò: per quello che sono, senza pregiudizio per quello che fanno, e spesso ci riescono, ma solo in quanto bambini… Invece chi cerca la freccia di Eros per fregiarsene prima o poi riceverà lo scherno della più cruda ma anche più ragionevole risposta: “E perché?”.
Una donna può essere lusingata dallo sguardo di cane o di avvoltoio dell’innamorato, ma anche ne ride prima o poi e ne teme a ragione l’equivoco che non le sfugge e che si riserva di spiegargli: non è lei la Donna!
Occhio al rapinatore deluso!
Il professor Alberoni ha prodotto almeno una cosa pregevole nel suo insegnamento, il titolo disgiuntivo e suggestivo del suo saggio tanto famoso quanto condotto in maniera fuorviante: di esso resta l’importanza di avere suggerito che l’amore è qualcos’altro dell’innamoramento e che questo, lungi da esserne il viatico, può esserne l’opposto o l’impedimento.
Non solo: in qualche mazzo di carte sull’asso è scritto: “In amor vince chi fugge”. Verissimo, tanto da rimandare a una legge per cui non può esistere infine un innamoramento corrisposto, se è vero come è vero che l’approccio erotico significa nel migliore dei casi “offrire ciò che non si ha a qualcuno che non lo vuole”.
Ma, paradossalmente, nello stesso aforisma lacaniano si può anche leggere che l’amore è a suo modo inevitabilmente corrisposto in quanto liturgia volta a preservare vicendevolmente la mancanza, la cosa più preziosa che tutti possediamo.
La stessa “cosa” che in Socrate apparve scintillare come non-sapere, “docta ignorantia”, se vogliamo, quell’agalma che l’Alcibiade intruso nel dialogo del “Convito” intravide essere fulcro di desiderio, pur senza riuscire a farsene fulcro di verità. Non può esserlo infatti: lo è invece il dubbio, che sta alla verità esattamente come la mancanza sta al desiderio, ne è la causa; sempre questione di solitudine, di inconsistenza dell’Altro.
Amare, dice Rilke, significa “affidarsi l’un l’altro la custodia della propria solitudine”. Bello e vero.
Scendendo un po’ di tono, una volta, non so dove, ho letto questa frase: “Amore è anche lavare i piatti, le lenzuola o le mutande” … Le donne, pure portate a innamorarsi dell’amore, la maggioranza, sembrano saperlo meglio degli uomini.