Nel famoso dialogo in francese tra Hans Castorp e madame Claudia Chauchat nella “Montagna incantata” è messa nella più bella evidenza la possibilità ultima dell’amore come “amour de Lalangue” ed altresì le possibilità che offre il genere all’Eros nel mettere in ombra il sesso.
Non dovremmo mai dimenticare che questo famoso “amour de Lalangue”, con la personificazione soggettiva del Simbolico corrisponde esattamente alle formule per cui “il desiderio è il desiderio dell’Altro” e “non c’è Altro dell’Altro”.
Siamo nel salotto del Berghof, hotel e sanatorio.
Il dialogo è, come sempre, una schermaglia d’amore ancora prima che ci sia un sembiante di amore, tant’è che esso si determinerà in seguito nelle più diverse sfumature tra eros, agape e philia. Schermaglia di risposte a domande non ancora pronunciate. Non c’è incontro se non c’è mancanza, né un dire, che è sempre un dire su di essa.
I due parlano d’amore, cioè parlano, per così dire, “al quadrato”, ben lontani dal solito bavardage cui lei ammette di essere incline. Entrambi depongono l’abito borghese delle due rispettive Muttersprachen per assumere la responsabilità assoluta che si impone dal momento in cui il fatto più evidente è proprio quello che di solito lo è di meno, “che si dica”: che dicano è appunto il fatto veramente importante dietro ciò che dicono in ciò che vi intendono. Parlano: più e prima che esprimere significati, dicono la verità senza saperla.
Fossimo in un film, la musica di fondo che viene dalla attigua sala da pranzo del Berghof dovrebbe spegnersi per fare spazio alla musica del loro duetto fatto di significanti che non significano altro che loro stessi. In verità per Hans, meno disinvolto nel francese di lei, i significanti soccombono nella “lettera”, scrittura di spartito.
Dialogo sonnambolico che ha il suo proprio tempo, esclusivo. Lui sollecita fortemente, corteggia “alla tedesca”. Lei, un quieto ad elegante animale da preda, quanto castrato non si sa, certo reso civile salvo un po’ di crudeltà, una donna antica e moderna, cioè classica, accondiscende più che all’Eros al comandamento della sua propria libertà.
Decide di prestarsi come sacerdotessa al rito del mysterium tremendum della passione di lui: che parli, che venga nel luogo dell’Altro. Il terzo.
Si fa fatica a definire la signora, ma qui le parole rappresentano entrambi, non importa chi le pronuncia, ed entrambi ne sono attraversati: in quell’angolo di salotto il corpo si è fatto mistico, offerto all’evento del significato impossibile e senza tempo.
Il discorso di una femme fatale è pressappoco questo: “non chiedetemi chi sono, lo vedete, una che può rappresentare, se è il caso e per un po’, la donna che manca, che non c’è: chi sarò me lo direte”.
Cosa le risponderà il ragazzo? Un dare e un avere di significanti, uno scambio sicuramente privo di equità, è possibile ma non attuale. Lo sarà la sigaretta che lei prende “senza ringraziare, con una selvaggia naturalezza del dare e dell’avere”, al momento di un secondo dialogo, dopo un tempo indefinito. Un significato.
La donna, questa donna, è quella che incede rilassata, avanzando con il bacino e facendo scivolare i piedi. Non chiude la porta dietro di sé, come dovesse sempre esserci dietro a lei un invisibile cavaliere. Trasandatezza nel comportamento indisciplinato, antimilitaresco, quel po’ di sauvagerie che è la spezia del saperci fare, gli abiti che fanno assolutamente parte di lei, espressivi, per così dire, o almeno come tali li vede Hans. Fluttuanti matinée di pizzo con le maniche aperte. Uno sweater e una sottana di flanella bianchi. Il vestito di seta scura bruno-dorata un po’ corto, la sottana lavorata a sbuffi. La calza di seta nera che riluce sul malleolo e la scarpa di vernice nera. Le infinite toilettes di Claudia scorrono come segnali, sembianti e feticci non del tutto futili, non pura parata, qualora ne parlino Castorp e Mann. Anche le parole forgiate da qualche poeta possono, inversamente, diventare feticci.
La borsetta in cui deve sicuramente esserci “una matita d’argento sottile e fragile, una piccola galanteria non atta certo ad usi seri”.
E’ soprattutto quella matita a significare il genere della signora, genere che non può essere che negativo-fallico o fallico-negativo, riedizione della matita che l’antico compagno di scuola, Pribislav Hippe aveva prestato a Hans Castorp adolescente (e forse incline al transfert dell’eromenos per come lo illustra Lacan nel suo commento al “Convito” platonico e che nel romanzo riappare qua e là nel rapporto tra l’ingegnere, ben più riservato di Alcibiade, e i due mentori auto-eletti Naphta e Settembrini, due per fare un Socrate e un Agatone…). Come è ovvio l’oggetto oscilla per lui, a mezz’aria, tra la funzione di feticcio e quella di insignificante piccolo oggetto (a) causa del desiderio. Rappresenta ancora il fallo, inesistente oggetto contendibile, il muro del desiderio che sbarra l’accesso al significato del sesso come rapporto, non ancora l’agalma, l’assenza di significato come primo significato.
Ci sarà un altro oggetto con pretese definitive, pertanto neanche più oggetto quanto Cosa: i due saltano il significato impossibile, lo oltrepassano eticamente. Come? Scambiandoselo. Ed ecco lo scambio della piccola radiografia che illustra l’interno del corpo come die Sache, parodia di das Ding.
Non è chiaro se l’amore di Hans venga, sia pure blandamente, corrisposto.
Avendo la struttura immaginaria, proiettiva/introiettiva, dell’innamoramento, la regola vorrebbe che non lo fosse; ma allorché nella struttura erotica che coinvolge Claudia e Hans gioca dominante il simbolico, ovvero il dire, e domina la figura del terzo, del Re morituro dotato di grande e inconsistente personalità, Mynheer Peeperkorn, sembra valere la regola opposta, dell’amore che riesce sempre a trovare corrispondenza nel suo stesso registro di domanda che amore ci sia, cioè ad ottenere in risposta un’altra domanda equivalente, talvolta di un amore diverso. Infatti, passato del tempo, in circostanze mutate, Claudia proporrà esplicitamente un’amicizia a sostegno della possibilità di un rapporto altro anche rispetto quello possibilissimo e in verità già in atto nell’”amour de lalangue”. Il fatto che si dica è segno di desiderio etico e di “un amore più degno”: philia, oppure agape? Cose che però mostrano di vacillare appena il desiderio soccombe alla passione.
Da donna esperta esclude che il suo corpo possa colmare la mancanza nell’interlocutore, mentre lei sopporta benissimo la propria.
Però, come lettore, sostituendo la mia immaginazione a quella dell’autore e dei personaggi, avrei preferito che vi fosse ammesso qualche specie di scambio o “arrangiamento”, nell’ammissione lacaniana, in cui entrassero maggiormente in gioco due corpi, pur riconoscendo che nell’economia narrativa, ovvero a favore di un senso, non c’entrerebbe per nulla: ma perché no, dato che in altre circostanze la dama non sembra ne rifuggisse?