La tradizione, se c’è, se è introiettata e fatta propria, meglio, se si è fatta struttura per quello che ha di simbolico, acquista una funzione protettiva, di filtro, verso le novità che, come una seduzione maligna per l’immaginario, ci vengono proposte o imposte prima che siamo disposti ad esse. Faccio due esempi in dimensione molare, cioè tirando in ballo forse indebite categorie.
Gli Austriaci, con l’avvertenza che un Austriaco è cosa diversa da uno scettico Viennese, non hanno ben digerito il tracollo dell’Impero, una ragnatela dispensatrice di beni per il ragno che stava al centro, alla Hofburg, e lungo i cui fili si irradiava da quel centro il senso delle cose.
Ogni novità culturale è vista dalla maggior parte degli Austriaci con sospetto e titubanza, per dirla tutta non fanno del rimpianto passatista un disvalore, anzi, talvolta sembrano compiacersene, ma in compenso i sembianti della tradizione formano un tessuto in cui si possano iscrivere nuovi legami sociali, una robusta cultura da intendere in senso forte, non come erudizione. Non c’è in questo tradizionalismo alcuna ideologia misoneista, anzi, gli Austriaci sembrano in grado di valutare con un certo distacco nuove idee e paradigmi per decidere se conviene dare ad essi accesso nella struttura. Sembra così che riescano a tenere insieme il buono del vecchio e il buono del nuovo, il Dirndl e la cibernetica. Sembra, c’è dell’illusione, l’eterna illusione di completare il mondo, ma ciò non toglie un aspetto di tolleranza che non risolverà niente, ma almeno calma i nervi.
Cerchiamo un caso opposto: i Croati, non disponendo di una tradizione molto credibile, piuttosto immaginata sulla base di una specie di desiderio nazionale, cadono nel trabocchetto di tenere assieme il cattivo del vecchio mondo medievale disegnato dalle guerre di religione, la barbarie della lotta cruenta, i testicoli del Papa, e il cattivo del nuovo, i gadgets e il sesso senza mediazione di genere. Semplificano il mondo esterno per meglio arricchirne la cultura nazionale, punto e basta, così scrivono le parole straniere come le odono pronunciate, anche quelle della lingua che parlano, la lingua serba che peraltro scrivono nell’alfabeto latino invece che nel cirillico originario. Tutto deve ridursi a schema semplificante per meglio integrarsi in una cultura fragile, soprattutto le sfumature di sesso e genere senza le quali si dà spazio all’omofobia. Nella frenesia di fare esistere il rapporto sessuale (croato) apprezzano lo skin-head che avvolto nella bandiera a scacchi picchia i manifestanti del gay pride day.
La bisnonna di mia figlia, una tirolese centenaria la cui unica cultura era appunto quella tirolese, tradizionalista e auto-referenziale, mostrava più comprensione per le libere (apparentemente) abitudini sessuali di mia figlia di quanta ne mostrasse mia moglie.
Scrivo ora mentre sono a Berlino. I Berlinesi sembrano avere coscienza che la città debba candidarsi ad essere la capitale morale dell’Europa, perciò barattano la loro cultura, in cui non manca la mite fierezza e lo scetticismo di chi ne ha passate tante, con quanto può giungere a loro dall’esterno. In tutti i casi non sprecano energie per la ripulsa, indaffarati come sono ancora a simbolizzare il doppio trauma, dell’ignominia nazista e della separazione nazionale che li ha obbligati a “pensarsi” come Kulturvertretung.
La cultura comporta tra l’altro anche il beneficio del coraggio di non ritrarsi nel momento dell’incontro con il nuovo: solo chi non ha una sua cultura teme la cultura altrui. E si aggrappa all’identità.
Oggi i mezzi di comunicazione e informazione implicano il globalismo, il grande capitalismo ne prende atto attuando, da forza perennemente e forzatamente rivoluzionaria qual è, una parodia dell’internazionalismo da IV Internazionale, eppure i nazionalismi non vengono meno, a dimostrazione di come è facile sottostimare la resilienza sia di cultura che di ignoranza.
Non c’è dubbio che i nazionalismi moderni, oltre che dalla ripugnanza dei vetero-capitalisti ad accettare la concorrenza, furono ispirati dal Romanticismo, specialista nell’inventare tradizioni invece che nello studiare le tradizioni autentiche. Ne è il frutto avvelenato l’oscena preveggenza/giustificazione dell’acuirsi degli odi nazionali nell’Impero asburgico, prima causa e poi effetto della sua disgregazione, di cui dà prova un Carlo Combi, quel personaggio che nel romanzo “Il gelso dei Fabiani” inquieta la matriarca Teresa e terrorizza la nuora Charlotte rappresentando quei veleni pretestuosi fatti apposta per poter disconoscere la cultura del vicino e farne un nemico, i veleni che preludono alla guerra e alla dispersione della famiglia Fabiani.
Per non essersi mai prestato a questi imbrogli andrebbe rivalutata la figura di Giuseppe Mazzini.