124. MINIMA LACANIANA

 Per essere lacaniani, qualità tutt’altro che obbligatoria che potrebbe prodursi per via di una analisi personale, non serve saper recitare a memoria i passi degli Scritti o dei Seminari, anzi, ciò andrebbe nel verso di una deriva scolastica da ipse dixit ed infine ecclesiale, da litania, oppure verso un tragicomico sapere “superiore”. Per essere lacaniani, in fondo basta accettare e fare proprie alcune premesse argomentative che oggi già appaiono addirittura riferibili a buon senso.

 Per esempio, ricordando la famosa disputa degli anni ’30 tra Piaget e Vygotskij, si starà dalla parte del secondo, per sostenere che l’essere umano nasce integrato in un mondo già imprescindibilmente affettivo, sociale e condizionato dal linguaggio, altro che per progredire verso la “realtà” provenendo da separatezza ed isolamento come tabula rasa di ciò che può essere umano, del Simbolico, per la precisione.

 Materialmente e immaterialmente siamo fatti ed embricati negli altri. La nostra solitudine è fenomenica, “rappresentata” (ma senza scampo), per dirla con Schopenhauer. Rappresentata nella “mancanza”, per dirla con Lacan. Starebbe nell’assenza di qualsiasi gerarchia leibniziana della monade, se questa esistesse, ma allora in quella miseria resterebbe la grandezza pascaliana del pensiero.

 A questo proposito un lacaniano può anche ammettere che il linguaggio preceda il pensiero se appena per pensiero si intenda l’astrazione, qualcosa di diverso dalle gestalt percettive o da un immaginario caotico, e può tenere per certo che la socializzazione, cioè la separazione del bambino dall’indistinto anaclitico vada di pari passo con l’alienazione in un Altro che del linguaggio è portatore. Con ciò si allinea al pensiero del secondo Wittgenstein, quello del “quaderno marrone”, prima ancora che a Lacan.

 Per fare un altro esempio, si sosterrà che ha torto Chomsky a dire che il bambino impara a parlare come gli uccelli imparano a cantare, se appena si fa distinzione (e bisogna farla) tra linguaggio segnico e linguaggio simbolico, cioè tra un novero di segni che si attivano in corrispondenza con eventi interni o esterni com’è nella comunicazione animale e in quella del computer, e quel linguaggio che invece consente a chiunque, anche senza sapere alcunché di De Saussure, di elencare in pochi secondi una ventina di significati diversi della parola “rosa”. Così che una parola “significhi solo non un’altra”.

 Curiosamente non c’è alcun darwinismo che possa rendere ragione del linguaggio umano per come lo conosciamo; invece, una volta tanto un po’ di creazionismo non guasta, come se qualcuno avesse combinato qualcosa nella preistoria che facesse il passaggio da un linguaggio puramente segnico a questo nostro pazzesco linguaggio simbolico che ha per referente solo il nostro senso delle cose che si erge sulla nuda vita e ci esilia dalla concretezza funzionale dell’animale.

 Come se qualcuno avesse combinato qualcosa in una indefinita preistoria, complotto, congiura, che comportasse un nuovo linguaggio segreto delle madri con i figli, qualcosa destinato a ripetersi tra madre e bambino, per una sorta di analogismo morfologico alla Haeckel, nell’apprendimento dell’infante a parlare.

 Un lacaniano ammette che con l’antico imbroglio erotico della Muttersprache abbiamo barattato il mondo con le parole. Segni vacillanti tra metafore, metonimie ed assonanze, buoni più per cantare che per capire, se non interviene qualcuno ad avallarli, un padre/padrone, un sovrano, Creonte. C’è qualche resto che è arduo dire se a credito o a debito: il desiderio, il miraggio del godimento e la Legge illegale di Antigone.

 Sarà un po’ lacaniano chi sa che molte cose si tengono insieme senza costituire né tesi né antitesi né sintesi, tali da apparire piuttosto come un dritto/rovescio oppure necessariamente co-appartenenti su un nastro di Moebius, per esempio talvolta odio e amore, come sostenne Catullo, o legge e peccato, come sostenne Paolo di Tarso, eccesso e temperanza, ignoranza e sapere, erotismo e pudore, coraggio e paura, ragione e sentimento, (non sarà per caso che queste coappartenenze, viste come chiasmi dialettici, sono servite talora da titolo per grossi libri), infine dubbio e verità.

 Già, perché per un lacaniano la verità è un effetto secondario: una risposta, qualsiasi soddisfacente quanto provvisoria risposta alla domanda insita nella fondamentale incertezza umana che non si placa nella certezza empirica e che ci spinge a dire, a dire. L’Aufklärung di cui possiamo fare esperienza non è quello dei filosofi romantici, si riduce banalmente al momento dello “ah, ah!” quando scopriamo quale tasto sbagliato abbiamo premuto sulla tastiera del computer.

 Un lacaniano sa che non c’è differenza in pratica e forse neanche in teoria tra gli intoppi, gli impedimenti e gli incidenti che incontriamo nel mondo fuori, nell’ambiente, e quelli che incontriamo in quel corpo che siamo dopo che tutti pensiamo di averlo e disporne in quanto già immaginato /simbolizzato.

 Pensa con Protagora che l’uomo è misura di tutti i valori, ma non di sé stesso, incline com’è ad autoingannarsi sull’amore e sull’odio verso sé e verso gli altri. Perciò resta vigile sulle reificazioni veritative dell’oggettivismo moderno e critico sul progresso come imprescindibile e grande idea positiva, risolutiva: si ritrarrà dal giubilare per ogni nuova invenzione tecnica se non è universalmente disponibile.

 Se si mette a pensare in grande le grandi cose umane, dopo averle indagate come prodotto della Storia, si sforza di ripensare l’essere umano come sincronico, astorico, in altre parole come possibilità d’essere. Possibilità etica e politica di vivere nella responsabilità del desiderio a fronte della quale non sono nulla i grandi ideali, i grandi proclami e i grandi programmi strutturali o la assolutoria ed estetizzante progettualità sartriana.

 È d’accordo con Deleuze che una struttura cambia per via “molecolare” se il significante diventa punto di squilibrio; anche la struttura della società e anche nel caso del più appariscente e apparentemente “molare” cambiamento catastrofico detto rivoluzione, che altrimenti potrebbe anch’esso svolgersi all’insegna del “gattopardismo”.

 Lacaniano o lacaniana è chi sa che nelle “faccende di sesso” vige il genere immaginario e un suo racconto autoerotico, che il piacere è omeostatico, cioè a saldo zero e che il godimento può venirci solo al di là o al di qua delle nostre strategie nel cercarlo. Ha accettato che il godimento è imparentato con l’angoscia come ciò che è di un Reale ingestibile.

 Che, questo è il più difficile di tutto, delusione della più grande illusione, non solo nella civiltà c’è il disagio dell’esilio dalla natura nella cultura, ma che la civiltà stessa è una supplenza ad una mancanza incolmabile, al “non c’è” di un rapporto sessuale in cui il mondo si completi, e che l’amore, il grande remedium, dobbiamo continuamente reinventarlo al pari del senso della vita. Ciascuno di noi. (Non è impossibile solo perché il fatto stesso che nell’umano non ci sia “rapporto” sessuale apre a infiniti rapporti simbolici che fanno esistere l’Altro e dai quali estrarre l’Uno di un godimento insaputo, indicibile e inconoscibile). Ma, in fin dei conti, per la teoria (e per la filosofia di ogni tempo…) il detto che “non c’è rapporto sessuale” rimanda al detto che “non c’è Altro dell’Altro”, con il che il dualismo inveterato della dialettica mostra di vacillare di fronte a un monismo problematico in cui decade l’idea (causale) di interno ed esterno per quanto ci riguarda, tanto da poter sostituire nel rimbaudiano “Je est un autre”, “suis” a “est”, laddove il soggetto si fa significante. “C’è dell’Uno”.

Non solo il desiderio come diverso dal bisogno, ma anche l’angoscia esistenziale e il mysterium tremendum sono retaggio umano, certamente da non cercare, dato che già ci sono in abbondanza: nella nostra solitudine non c’è niente di meglio per farci compagnia del non sapere, che non è l’ignoranza. Per quanto riguarda la scienza e, in generale, i saperi, un lacaniano sa che ci saranno per lui più misteri che riguardino i soggetti di quanti possano riguardare gli oggetti, dato che questi sono essenzialmente significati.

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