L’Oberstieutnant Recalcati (il risultato di un’analisi può essere anche una spaventosa capacità di lavoro) si è impegnato già da un decennio a percorrere sagacemente da par suo, l’insegnamento di Lacan per estrarne anche qualche teoria estetica. Ha individuato tre diverse posizioni teoriche che reputa integrabili per rispondere alla domanda di cosa sia l’arte. Specialmente le arti visive e materiali, dato l’interesse di Lacan per la visione e l’amore di Recalcati per la pittura.
Stringo l’argomento forse oltre il lecito dettato dalla cortesia. Una prima estetica, riferita soprattutto al Seminario VII, attribuisce all’arte la funzione di consentire un approccio alla Cosa di ascendenza heideggeriana che però per Lacan non è puramente un extra e un vuoto rispetto al linguaggio ovvero allo spazio in cui avviene il Senso, quel vuoto che nella metafora di Heidegger acquista esistenza nelle mani del vasaio, ma un punto di vuoto in quanto godimento impensabile che è interno/esterno, “estimo” alla struttura simbolica: l’insensato mortale imbrigliato dal linguaggio, causa di pulsione in cui il desiderio trova la delusione assoluta come nell’oggetto la trova relativa.
L’approccio alla Cosa del Reale può essere solo allusivo e, per virtù di stile, può fare perno e/o schermo su qualunque oggetto, per esempio (heideggeriano) le scarpacce abbandonate come “natura morta” del famoso dipinto di Van Gogh. Vi dipinse il sospetto che qualcosa di sé, il dolore di vivere, era in quelle scarpe. La pulsione non ha un senso necessario.
Non si esula in questo caso dalla concezione lacaniana della sublimazione: “elevare l’oggetto alla dignità della Cosa”. Questa interpretazione generale del concetto freudiano di sublimazione quasi per caso risulta particolarmente adatta a rendere ragione dell’elaborazione artistica e a porre la bellezza ad incrociare l’impossibile da dire per trasformarlo in possibile. Tuttavia andrebbe annotato che l’artista non ha necessariamente il rapporto strettissimo con il Super-io tipico della sublimazione comunemente intesa.
Una seconda estetica è quella dell’”effetto quadro”, di ciò che provoca il nostro sguardo, la macchia insensata ma imperiosamente imprescindibile che ci obbliga a soffermarci su di essa finché acquisti in noi forma e senso. Questa seconda estetica è senso-poietica. Non si tratta dell’occasionale macchia del test proiettivo di Rorschach ma di un messaggio inconscio un po’ laterale, sotteso, che rende però ragione del quadro nel suo insieme. In questo caso l’artista si pone come demiurgo inconsapevole, costruisce l’opera come gli viene, lasciando che ne traspaia un enigma creativo, un’anamorfosi che non manca mai e che noi cogliamo di sbieco. Ne troviamo il paradigma, tuttavia in questo caso voluto e artefatto, nel famoso dipinto “Gli Ambasciatori” di Holbein il Giovane. Molti riferimenti alla verità come anamorfosi si trovano nel Seminario XI e negli Altri Scritti. Una analisi oggettiva ed esauriente del dipinto nel suo complesso si trova in cultorweb digitando titolo e autore.
Resta da dire che qualsiasi cosa può fare macchia cosicché, se fossimo artisti, potremmo tutti farne arte. È questo il problema, che l’artista è “prima condizione”, in quanto tale, dell’arte.
La terza estetica è dell’ultimo insegnamento degli anni ‘70 e ne troviamo i riferimenti in Lituraterra nel Seminario XVIII. L’artista non può non trasferire nell’opera una lettera, un tratto materiale che non è ancora significante. È una partitura incompleta che si è iscritta nel reale del corpo e che obbliga a quel particolare gesto e non a un altro nel momento creativo. È lo stile come stilus, mai parola sarebbe più adatta: l’artista opera come scriba apportando ferite alla tavoletta d’argilla nel Reale. Non al servizio del desiderio di sapere il godimento, come nella prima estetica o dell’inconscio come nella seconda, è al servizio del godimento e basta. Opera in quel “litorale” in cui si incontrano e si scontrano la contingenza eterna dell’evento e la necessità rappresentata dal corpo, in esso inscritta, disegnando una geografia che si impone al nostro percorso di godimento tra senso e non-senso restando in gran parte inesplicata. Ne è paradigma la scrittura sintomatica di Joyce in “Finnegans Wake”.
Possiamo provare a dedurre una direzione orientata entro queste distinzioni? Possiamo.
Un primo evidentissimo dato unificante le tre estetiche è quel resto sfuggente di tutto ciò che appare facilmente esprimibile, un resto che Lacan definisce “estimo” in altri contesti, superando con il neologismo il concetto post-strutturalista di esclusione interna. Quanto più laterale tanto più centrale, occultato centralmente, che non può mancare in un’opera d’arte come crisma d’arte, ma che corrisponde in termini generali e banali a ciò che, fulcro di un senso possibile, principio d’ordine, fa struttura di un insieme. E di una insufficienza fa stile: chiesero una volta a Giacometti perché facesse le figure umane allungate e filiformi, rispose che avrebbe voluto raffigurarle nelle giuste proporzioni ma non ne era capace. Producendo così ciò che può suscitare la nostra perplessità: “perché?”. L’’Arte è tra questa domanda e un’eventuale risposta.
Forse la risposta da dare a chi pensa che la scultura del “romanico” appaia rozza o sommaria solo causa un’incapacità dello scultore di essere naturalista.
Ovviamente l’atteggiamento di Lacan verso l’arte è l’opposto di un contenutismo che veda nell’opera d’arte un racconto leggibile, conscio o inconscio che sia, piuttosto afferma che l’evento artistico, evento discreto e non continuo, privo di gradazione, o c’è o non c’è, avviene, se avviene, come pura efficacia, chiasmo di godimento estetico tra produzione e fruizione. Deve poterne godere e l’artista e lo spettatore. In fondo contemporaneamente, dato che il secondo è già da sempre presente, introiettato come Altro. Di che godimenti si tratta?
Quando Oscar Wilde, guardando il Tamigi in un tramonto nebbioso si limita a commentare “un Turner mediocre!” depreca il fatto di non poter dire altro dello spettacolo reale del momento e il fatto che non potrebbe dire altro di fronte al “Turner” corrispettivo, appunto perché opera mediocre, non riuscita, non arte. Lo stesso Wilde azzarda che il pur ampolloso Ruskin, scrivendo su Turner, ne crea l’arte ed è artista quanto Turner.
L’opera d’arte rimanda ad altro che sé stessa e anche ad altro di ciò che vorrebbe rappresentare. Per l’artista si può pensare al lavoro alchemico che cambia la materia e contemporaneamente il soggetto che vi opera, oppure a un processo simile all’elaborazione del lutto, lo scongiuro inefficace, se non simbolicamente, di una mancanza reale, ma per lo spettatore si può pensare solo a jouis-sense, godi-senso; apertura a qualche nuovo discorso intorno alla verità.
Mi sembrano evidenti due tratti problematici che accomunano le tre estetiche, come linea di pensiero o minimo comun denominatore: la coazione per l’artista, coazione che non esclude certo il godimento, dato il carattere essenzialmente passivo di esso, e il dono di godimento del tutto evenemenziale per lo spettatore.
Il primo tratto fu risolto da Vladimir Nabokov. Quando un cretino gli chiese perché avesse scritto Lolita, il più bel romanzo del secondo Novecento, rispose nella maniera più ovvia: “Perché non potevo farne a meno”. L’Alfieri leggendario che si lega allo scranno per comporre le tragedie invece di lasciarsi legare dal suo Reale, cioè dal suo desiderio inconscio e dal suo godimento, con ciò stesso decade come artista.
Per esplicitare il secondo tratto direi di partire dal primo. L’artista, che, come abbiamo detto, è prima dell’arte, è il disgraziato che vuole dire a tutti i costi quello che non si può dire, il suo godimento, perché non c’è parola che dica sé stessa. Di fronte a “Lalingua” il linguaggio, “una elucubrazione” che ignora quanto si goda a dire, vacilla e mostra la sua debolezza. L’artista allora ricorre ad uno stratagemma, invece di parlare e straparlare oppure di tacere, come tutti noi, fa un’opera al cospetto dell’Altro, accanto al luogo del linguaggio, lo tenta con segni spontaneamente allusivi del godimento, non del tutto consapevoli e non del tutto inconsapevoli: chissà che di ritorno non gli arrivino le parole che mancano. Se arrivano a lui arriveranno anche agli altri. Ciò induce a pensare a un po’ di sublimazione, a una vocazione socializzante, ma niente di ciò si ritrova a livello di analisi della personalità di un artista: il suo momento creativo è piuttosto “autoerotico” e depersonalizzato. Esprime per esprimere: non c’è, non ci dovrebbe essere, preoccupazione identitaria, nel momento creativo.
In ogni opera d’arte c’è una strizzatina d’occhio che le attiene e nello stesso tempo non le attiene, ma che rappresenta l’artista più della firma: è lo stile, una trappola imprevedibile, qualcosa che non c’è per esempio e di principio nell’opera artigianale, in cui vige la maniera. L’artigiano vi può mettere la bellezza, l’equivoca promessa di felicità che non può essere mantenuta, un’esca, ma manca la miccia, l’ammiccamento al limite del tic. L’evento artistico è tutto da riconoscere ex post nell’efficacia seduttiva dello stile idiotico, irripetibile, che ci consente una digressione dall’automaton verso la tyche. A questo proposito Picasso fu esplicito: vi si trova, se si trova, anche ciò che non si era cercato.
A cosa serve l’arte? A far dire l’Altro sul godimento (“l’inconscio è il discorso dell’Altro” … Ma il godimento è il Reale del sapere inconscio), a far sì che il discorso umano continui oltre i suoi impedimenti e oltre la prevedibilità del common sense per dire il senso delle cose. Di un fatto artistico sa godere chi sa scorgervi l’enigma e allo stesso tempo poco più che un cenno di avvio alla sua soluzione.
Ecco, c’è forse una possibilità di formulare una teoria integrativa sulla base delle tre estetiche di Lacan: l’arte nel suo lavoro espressivo, di significazione con mezzi suoi particolari, è un ponte su cui il nostro discorso può superare il baratro dell’indicibile, di ciò che ci fa ammutolire, del godimento che ci trova solo quando non lo cerchiamo.
Può sfuggire, a questo punto, una somiglianza tra l’arte e la psicanalisi? Non è anche l’analizzante nella cura a voler far dire all’analista qualcosa di non detto sul godimento? Non ci si attende che sia invece l’analizzante a farlo?