Per dirla ingenuamente, cioè nella “dir-mensione” ontologica che fa della quantità misurabile una suppletiva “forma-a-priori”, l’immaginario umano non è mai scevro del simbolico che lo trasforma in una pur non bene articolata narrazione, perciò non è mai neanche scevro d’inconscio, ragione libidica, come lo sarebbero invece le Gestalten evolutive atte per natura ad orientarci in un qualsiasi Umwelt: è la proporzione il problema, in altre parole quanto il discorso inconscio (dell’Altro) vi pesi per stabilire in quel mare una rotta fortunosa.
Fino una certa quantità e una vaghezza esplorativa si produce il “sembiante”, la famosa realtà di quando si esordisce nel discorso dicendo: “in realtà…”; un velo di Maya, veste della “rappresentazione” schopenaueriana, mai tanto fittamente intessuto (con la trama del paradigma e l’ordito del sintagma) da non lasciar trasparire l’angoscia di un Reale inconsulto e insensato, non omologo alla realtà. Angoscia che peraltro Lacan definisce “un sentimento che non inganna”.
In ciò consiste la differenza rispetto il fenomeno per come lo formula Kant, ed è che non c’è rapporto di trascendenza con un noumeno, con cose più vere e più essenziali in cui credere sulla parola, dato che non possiamo farne esperienza sensibile.
Invece nel riconoscere la precarietà e l’incertezza esistenziale a livello del senso, consiste anche il confine al di là del quale ci può essere la psicosi, una sorta di pietrificazione della struttura in un suo senso unidirezionale, privo di scappatoie. Cioè, oltre quella quantità, debordando la portata dell’evento inconscio ovvero la forza di gravità del desiderio inconscio che ordina le cose, spesso a nostro svantaggio, al sembiante si sovrappone il “fantasma”, una realtà parallela e alternativa, fatta di fantasie più o meno sensate riguardo il loro scopo di giustificare il sintomo che, se può, preferisce sguazzare nell’Immaginario: fantasie adatte a comporre in un’illusione principio di piacere e principio di realtà, in cui si reificano, prendono corpo, transazioni abbastanza slegate tra di loro, erratiche, per così dire, tra desiderio in quanto ha di immaginario, legge in quanto ha di simbolico e godimento in quanto ha di reale. È ciò che Freud chiamava “regressione”. È il caso, per Lacan, di quando l’oggetto (a, piccolo altro) ci distoglie dall’Altro: sembrando così entrambi semplici difetti simbolici. È il caso in cui l’inconscio, il “nostro” Reale, incrocia l’Immaginario a spese del Simbolico, senza la opportuna diluizione: è il caso dei sogni e delle fantasie, cioè del delirio più ordinario e assolutamente ineliminabile.
Una realtà semi-onirica ed epifanica, adatta per trasferirvi l’angoscia come paura di mille cose senza nome. Finalmente, approdati nella psicosi detta normalità.
Ma non dobbiamo neanche dimenticare ciò che per le stesse vie, allo stesso incrocio di Immaginario e Reale può farvi eccezione: l’arte, lo sforzo primigenio di far nascere parole dove mancano.
In una lezione intitolata “La natura dei sembianti” J.A. Miller dice che questa “consiste nel far credere che ci sia qualcosa là dove non c’è”, definizione questa che pare ancora più radicalmente adatta per il fantasma, il momento in cui il Soggetto, che non può conoscersi da sé, entra in rapporto con il significato che manca: renderebbe ragione anche di ciò che accade all’Altro alla fine dell’analisi, quando l’analista smette di essere un fantasma afasico sul godimento e reticente sul desiderio, ma non è destituito come “significato” lacaniano. Per esempio, il sembiante come di un buon conoscente, ben inserito nel nuovo strano senso della vita che supera il sapere, raggiunto (o creato…) nella analisi, sul proprio godimento.