I sociologi della diaspora da Francoforte avevano “in gran dispitto” il cinema. Lo accusavano di essere, fingendosi arte popolare, semplicemente funzionale al dominio totalitario nel Paese da cui erano dovuti fuggire e al dominio non meno totalitario, del mercato, nel Paese che li aveva ospitati.
In verità del cinema conoscevano la produzione del genere della Leni Riefensthal e quella di Holliwood. La prima asservita palesemente all’idea totalitaria realizzata come nazionalsocialismo, condannata a mutuare l’arte con il Kitsch nel tentativo di estetizzare la politica, mentre la seconda, frutto di un’organizzazione non meno totalitaria in cui il produttore capitalista aveva ogni voce in capitolo, sembrava condannata a ridursi sostanzialmente, oltre che a far danaro, a un ben congegnato messaggio giustificativo dell’ideologia borghese, norma di garanzia per gli scambi nel mercato e nutrimento dell’immaginario a sua rispondenza.
Per inciso, stabiliamo una volta per tutte che il capitalismo ha la sua ideologia, alias sovrastruttura marxiana politica, nella democrazia liberale (come valorizzazione economica del desiderio individuale).
Questo loro punto di vista aveva il pregio di anticipare il discorso teorico di Mc Luhan e Ong sul mezzo che condiziona il messaggio e sul messaggio che suggestiona il destinatario con tutto il peso del mezzo, ma nell’epoca di ben altri condizionamenti sistematici risulta essere stato troppo pessimista. Certo, ancora oggi è quasi escluso che un film holliwoodiano, potentissimo sul piano della pura significazione, si sottragga allo schema favolistico e manicheo, repellente quando non siamo disposti a lasciarci infantilizzare, ma c’è anche dell’altro da vedere, perfino nel cinema targato U.S.A., specialmente se rivolto culturalmente alla East Coast, in fondo verso l’Europa.
Il cinema nel suo complesso non può certamente dirsi arte popolare, anche perché è dubbio che possa esistere un’arte popolare, ma non pare affatto escluso un suo occasionale carattere propriamente e liberamente artistico, cioè poietico di un senso non necessariamente funzionale al sistema economico e sociale vigente. Un solo esempio tra tanti: il neo-neorealismo allo stesso tempo crudele e temperato di certo cinema tedesco dopo la riunificazione, agli antipodi, per esempio, del film “The Sound of Music” con cui, dopo la guerra, i vincitori vollero ricostruire artificiosamente dall’esterno lo Stimmung austriaco.
La massa consumatrice di cinema, come la vedevano gli esuli di Francoforte, beota o almeno disposta alla reificazione e al feticismo dei sentimenti che è il contraltare del feticismo marxiano delle merci, c’è ancora, forse solo un po’ ridotta, come un resto paradossalmente elitario del più vasto pubblico dell’intrattenimento televisivo, ma il sistema dell’arte cinematografica, composito per tecnica, apporti organizzativi e linguaggi, di cui peraltro la televisione si avvale, si rivela nei fatti più “democratico” rispetto ai sistemi di altre espressioni d’arte rimaste soggettivamente più “pure” nel modo di implicare un soggetto produttore e fruitore: teatro, arti visive varie, musica.
Questo se per democratico si intende suscettibile di trarre ispirazione dal riscontro attivo che gli viene dal pubblico per attivare nuovi stilemi, libertà tematiche fruibili, dibattiti, aperture etiche.
È possibile nel cinema o anche nei suoi triviali derivati, saghe e serie televisive, qualche crittografia che, pur nella difficoltà di esulare esplicitamente dal discorso corrente, apra faglie di senso nello stesso discorso? Siamo sempre lì, tra arte e non arte: aiuta il cinema a parlare là dove c’è il silenzio di Wittgenstein? Più o meno oggi, per esempio, del teatro? Pare di più. Non va a costituire anche il valore di un film ciò che precisamente costituisce il valore di ogni opera d’arte, cioè il fatto che il suo messaggio non può esistere con altri significanti se non con quelli in cui l’opera è strutturata? Cioè, nel suo genere con quello stile e non con un altro? Notiamo che nel teatro c’è meno distanza, ovvero spazio per eventuali libertà espressive, tra l’opera scritta come copione e la messa in scena di quanta ve ne sia tra una sceneggiatura e il film prodotto. In tutti i casi oggi è più probabile un esito d’arte con un film che con la messa in scena del teatro di Brecht, anche fatto salvo il pizzico di schematismo teutonico.
D’altronde c’è un sicuro metro per misurare la vitalità di un’arte: basta far caso a quanti critici si espongono a criticare nel senso forte, o addirittura a stroncare un’opera invece di elogiarla d’ufficio. Il rialzismo borsistico della critica non solo non giova all’arte, ma è indicatore che un’arte sta morendo o boccheggia. Non pare il caso del cinema. È invece il caso della pittura.
La figura del regista per qualche ragione si è sottratta a quella di impiegato della produzione più di quella dello sceneggiatore, prima in Europa e poi anche in altre nazioni e finanche negli States. Sfugge al sistema per il varco che il produttore apre perché entrino nuovi profitti avendo chiuso tutti i varchi dai quali potrebbero uscire. Non sono i tantissimi addetti nel sistema produttivo a decidere, sono in due, il produttore e lui, come dire Giulio II e Michelangelo. Il regista è un operatore tra i più liberi nel sistema tardo-capitalistico, non perché non ne goda gli agi, ma perché ne gode più precariamente, occasionalmente, peraltro trovando spazi di autonomia dal produttore nella complessità del mezzo.
C’è spesso il caso di film che riescono, per loro virtù artistica stuzzicante, a superare i filtri della distribuzione che punta ad assecondare i gusti di massa, riuscendo così a far incontrare nella stessa sala cinematografica lo spettatore popolare affamato di merce novella, che non vuole attendere la programmazione in TV, e lo spettatore elitario che rende omaggio a ciò che auspica non passi mai in televisione.
Può anche succedere che un film capace di turbare le coscienze diventi fruibile per un pubblico vasto per la presenza consapevole o inconsapevole di un “divo” che funge da testimonial interno all’opera per “gravare” su ogni elitarismo culturale: ben venga!
Trattandosi di un’arte matura, cioè che si presenta su un suo già dato sfondo valoriale, gli addetti a mediarla presso il pubblico sono in concorrenza tra loro per associare preferibilmente il loro nome e il loro intervento a prodotti classificabili come egregi sul piano formale, trascurando automaticamente quelli pedestri a meno che non siano garantiti come molto remunerativi. Questo piano formale dovrebbe essere, come per ogni opera d’arte, lo stile. quello stile che all’artista è imposto, voglia o non voglia, solo dal suo stesso desiderio inconscio, come dire dalla sua personalità autentica e singolare; lo stile solamente in virtù del quale possono passare dei significanti “nuovi” in risposta a una impasse qualsiasi nel discorso corrente della società.
Ecco un doppio esempio di eterogeneità dei fini e di double bind: il mercato e la complessità tecnica spinge il produttore cinematografico ad imporre al regista di essere libero nell’esprimersi. Il paradosso di Bateson: il padre che dà uno scappellotto al figlio ingiungendogli di mostrarsi più libero e spontaneo. Figurarsi se, potendolo, il regista non farebbe a meno del produttore (ma, i costi?) e il produttore non farebbe volentieri a meno del regista privilegiando un rapporto diretto ed esclusivo con lo sceneggiatore. Ma come appropriarsi dello stile che non solo fa tutt’uno con la tecnica operativa ma anche distingue il prodotto?
Manco a dire che uno stile voluto scade per ciò stesso nella maniera, quanto di più improduttivo per l’unico valore che ha l’arte, quello di aprire discorsi. E non sarà certo con il linguaggio funzionale dell’epoca nei suoi condivisi paradigmi e corretti sintagmi, malgrado ogni sforzo per farlo esprimere il nuovo che si attende, che qualcosa di nuovo produrranno i funzionari della cultura, qualcosa di alternativo alla stessa epoca in cui rappresentano funzionalmente la voce del padrone. È lo stile che cambia il linguaggio, non viceversa! E poi, il linguaggio, chissà.
La televisione, che è mantenuta dalla pubblicità, se programma un film di pregio lo mette in qualche modo in cornice, lo individua isolandolo nel palinsesto, mirando al target elitario e permettendo al pubblico più vasto di evitarlo per principio. Economicamente, oltre che per la cultura, un autogoal. Sarebbe forse più economico fare l’opposto, affidare al popolo, anche senza che se ne accorga, l’onere di individuare arte ad ogni buon conto, ma si perderebbe il controllo, irrinunciabile per qualsiasi sistema informativo, su possibili epidemie di verità virali. Quanto più potente è un sistema comunicativo tanto più ne devono essere prevedibili gli effetti ed è questo il problema politico che la “rete” pone ai pochi che nell’ombra ne tengono le redini economiche dopo aver allargato la produzione ai fruitori.
È più probabile che l’unica residua possibilità della televisione di trasmettere arte massiva, a pioggia, cosa che dovrebbe essere alla sua portata, sia proprio negli stacchi pubblicitari: per l’irritazione che provocano in quanto spreco di bellezza e stile artisticamente efficace, un affetto come un altro, foriero di spostamenti simbolici. Oltre che per la violenza dello stacco, per la violenza improvvisa della domanda retorica “cosa aspetti di godere?”, in cui c’è tutta l’etica del tardo capitalismo. E per l’orrore di uno stile artisticamente efficace solo per introdurci all’acquiescenza della menzogna.