132. CHE L’UOMO SIA IL SUO STILE

 Non me ne vogliano i due nominati di seguito se, senza chieder loro il permesso, li chiamo a supporto di questa nota generica in funzione di “universale singolare”, pur con la garanzia della mia totale stima e ammirazione, di più, affetto.

 Di uomini pubblici come Claudio Magris o Corrado Augias salta agli occhi una caratteristica: il tipo umano del gentiluomo d’altri tempi, l’interprete di una rara santità laica, borghese e antiretorica in quanto nettamente opposta allo snobismo tardo-romantico o alla seduzione fallica, una esemplarità morale costruita semmai con pezzi di umanesimo classico. Un’etica neoclassica, temperata, senza impeti barocchi e opposta ovviamente anche a quella religiosa, pietista ed economicista individuata da Max Weber.

 Tuttavia, l’etica, il ben comportarsi per preservare il campo dell’Altro ottemperando alla legge soprattutto interiore, è in essi un tratto così evidente da far immaginare che sia evidente anche per loro, permanentemente cosciente come buon pensiero di buon comportamento. Un approccio all’etica, alla “ragion pratica”, che in estetica sarebbe rovinoso: la maniera, conscia, farebbe aggio sullo stile, inconscio. Lo stile non si controlla, non se ne sa nulla, risponde, come il tic, alla insopprimibile “patologia della vita quotidiana” che intrattiene rapporti anche troppo diretti con il godimento. L’etica per Lacan in questo sarebbe stranamente più vicina alla natura che alla cultura.

 Invece il buon pensiero che si suppone stare dietro il “bene dire”, anche se è, come in questo caso, distante da quello del cosiddetto benpensante, può, dio non voglia ma non è escluso, trasformarsi in penitenziale limitazione del desiderio; invece, se fosse quello del benpensante, sarebbe subito deprimente moralismo dell’Io, l’etica che si pretende dagli altri. Come quella di Ruskin, che voleva ogni mercante più onesto di quanto lo fosse stato suo padre. C’è il rischio per questi Soggetti che la loro esemplarità umana espressa come low profile assuma il significato di voler essere come gli altri, niente di più, ma al patto inespresso che gli altri si sforzino di essere come loro.

 Insomma, quello che fa specie è l’assenza di ogni segno di qualche desiderio, non dico perverso, ma almeno incompatibile con qualche ideale dell’Io tra quelli rocciosamente congrui con l’Io ideale. Un territorio della personalità così efficacemente munito, così impenetrabile e addirittura ermetico può sembrare unheimlich.

 Ribadisco che non ha nulla a che vedere con storie di falsa coscienza da “anima bella”, anzi, l’istanza dell’esempio da dare è propria dell’etica, e il rischio del ridicolo, nel tentativo di potersi donare, per via di sublimazione, a un ideale dell’Io, non solo si può, ma si deve correre. È una specie di mania buona e fertile che insegua l’ideale dell’Io, diversa dal caso tanto deprecabile quanto universalmente diffuso in cui ci si volesse identificare in un Io ideale.

Lascia un commento