Nel paradigma naturalistico del materialismo ottocentesco si voleva identificare l’etica nell’etologia, ma è stato un breve scostamento dalla tradizione filosofica occidentale ispirata ad umanesimo.
Da sempre l’etica, sia descrittiva che normativa del comportamento umano, riguarda la politica come regolazione dei rapporti sociali, pertanto quel linguaggio (simbolico lacaniano, luogo del desiderio dell’Altro) in cui i legami sociali si definiscono e in cui si rappresenta il soggetto stesso dell’etica e della politica: l’umanesimo sta nel fatto che, chissà perché, il soggetto vi si rappresenti al centro, cioè anche senza che si sappia di più sull’essere umano. Da qui all’ideologia il passo è breve.
Naturalmente è abusivo o addirittura impossibile separare l’etica dal problema un po’ antiquato del libero arbitrio che sottostà sempre di più alla difficoltà di poter precisare la posizione del soggetto etico per logica modale, tra cause ed effetti, necessità e contingenza, assoluto e relativo, Grazia e Destino, cioè per la natura dei suoi condizionamenti alla luce del “principio di ragion sufficiente”. In ciò l’etica sposerà inevitabilmente la logica del taglio (nella complessità) che è l’ultima logica, ultima perché segna il momento dell’uscita dal suo esercizio.
Sottrarre l’etica, in attesa di rifondarla, all’ideologia in cui può funzionare come copertura del sintomo sociale, ovvero come falsa coscienza, è una sfida che ci lancia la “filosofia del sospetto”, ovvero che ci lanciano Marx, Nietzsche, Freud. È più facile sottrarla alla religione allorché si è deciso, in fin dei conti con Spinoza, che non c’è idea più determinista, ostile alla libertà e pertanto all’etica, che l’idea di un Dio provvidenziale. In “Zur Genealogie der Moral” Nietzsche svaluta anche i sacri principi di uguaglianza, libertà e fraternità come invenzioni nate nel risentimento sociale, al punto che non solo il desiderio di Marat ma anche il desiderio di Marx diventi “sovrastruttura”.
Non fosse per Freud, si potrebbe lasciar cadere la sfida, come fa tranquillamente Lukacs, per esempio, o, più problematicamente Althusser, insieme con l’idea deprezzata di soggetto umano come semplice riflesso di tutto ciò che si muove nella Storia. Ma il soggetto umano è abrogato ben più esplicitamente nello strutturalismo sincronico di un Levi-Strauss.
La sopravvivenza della responsabilità personale è davvero precaria se non si procede sulla via di Freud per distinguere l’Io della (falsa) coscienza da un soggetto affetto ed effetto di inconscio. Se lo si fa, si ridarà, anche senza volerlo, un po’ di fiato di verità alla cosiddetta sovrastruttura, in cui agisce sì l’ideologia come razionalizzazione tendenziosa, ma anche il suo opposto, il dubbio, il bisogno di libertà critica, la trovata, l’arte, in opposizione alla fatalità nichilista che è l’esito finale di qualsiasi naturalismo o materialismo.
La sovrastruttura smette il prefisso sovra quando la si identifichi al linguaggio!
Se l’essere umano, lo sappiamo, si aliena nell’Altro, ciò significa che si aliena nel suo stesso discorso e nelle forme di convivenza come esito di discorsi comuni, in fondo nella Storia come narrazione ovvero interpretazione di un avvenuto aggiustamento continuo, immaginario e simbolico, in una belluina ridda di vitalismi naturali come i bisogni e meno naturali come i desideri. Che la Storia investa Polis, Impero, Rivoluzione, reificazione del contratto sociale, del mercato, di totalitarismo tecnologico, è sempre dei padroni vincitori, ma è curioso che l’essere umano, dando per scontata una specie di naturalità padronale, vi si debba riconoscere come possibile attore morale sentendosene allo stesso tempo condizionato come da qualcosa di esterno. La massa degli assoggettati ha sempre risposto al desiderio di gerarchie del padrone dividendosi ordinatamente in caste o ceti più attenta ai bisogni di sicurezza che al desiderio di libertà, ma è strano quanto sia rimasto più flebile un discorso di generica giustizia sociale a fronte di altrettanto generici ma ben più potenti discorsi di moralità.
Ciò che sfugge allo schema della lotta di classe in cui si risolverebbe storicamente la dialettica protostorica del padrone e del servo, è ciò che è alla base del chiasmo, il desiderio inconscio. È dell’Altro, ma in bilico tra genitivo soggettivo e oggettivo. Perciò forse Hegel mette in palio in quella lotta primitiva un significato astratto che travalica la morte e trascura beni materiali, che c’è solo se è riconosciuto, il puro prestigio. Perciò forse i più attivi negli aggiustamenti storici appaiono essere i nevrotici.
Lacan raccoglie la sfida di restituire l’etica al soggetto, liquida come spunto psicotico l’assolutezza dell’imperativo categorico di Kant facendolo cortocircuitare con l’aspirazione di Sade all’assoluta trasgressione e, al di là della tradizione o della religione, recupera un possibile soggetto etico in colui o colei che dà per proprio conto in base al proprio desiderio un senso al mondo e alla vita, se vogliamo, al Dasein, perciò essenzialmente a sé stesso o sé stessa. Si tratta di rischiare il passaggio al concreto patologico di un risvolto attivo e un po’ astratto del godimento, altrimenti di natura passiva, cioè di passare al rischio di cambiare le cose partendo da ciò che si è in quanto sintomo irriducibile. Di nuovo: il taglio.
È l’etica soggettiva, l’atto già di per sé significativo, simbolico, che fonderà la cultura nel mettere alla prova il desiderio, e non che viceversa la cultura fondi l’etica come copertura del godimento.
Però non c’è alcuna autonomia separatoria, in stile esistenzialista sospettoso dell’Altro, né alcuna simmetria idealistica con un mondo oggettivo, perché non c’è Altro più consistente dell’Altro a garantire alcunché; non c’è un’idea di mondo perfetto e giusto meno folle di un’altra, né buoni esiti storici per l’ottimismo della volontà che possano temperare il pessimismo della ragione.
Si tratta di prendere la parola così come viene nell’assemblea umana, se e quando garba, cioè autorizzandosi da sé, per un discorso non poco impegnativo anche in piccolo, con il prossimo più prossimo, senza prendere in considerazione l’uso del megafono, che non avvicina i corpi.
L’etica è possibile solo all’insegna della contingenza erotica, perché è più facile immaginarsi, ora in un modo ora in un altro, secondo il desiderio, che ottemperare al precetto delfico pieno di presunzione filosofica che intima di conoscere sé stessi per poter essere graniticamente (e comicamente) se stessi, enti moralistici a fronte del diritto e statici a fronte della morte.
Ecco allora che per dare un senso a ciò che non ne ha alcuno non serve la filosofia o la meditazione riflessiva, basterà non cedere sul proprio desiderio pur senza ignorarne la essenziale discutibilità. Resterebbe il problema di stabilire un nesso tra etica ed erotica.
Non cedere sul proprio desiderio significa emanciparlo dall’immaginario in cui già stanno gli oggetti da prendere di mira in un repertorio più adatto al piacere che al godimento, per votarlo invece, il desiderio, ad un obiettivo emozionante al limite della sopportabilità, il godimento di essere Uno e Altro compresenti nella “parola piena”, atto verbale che può tradursi in “passaggio all’atto” etico, responsabile dell’inconscio e pertanto di tutto, evento a fronte del Reale. Non mi pare del tutto assente l’ironia: basterà essere eroici. Può eventualmente sorreggerci sapere (ce l’ha insegnato la psicoanalisi) che non c’è al mondo giustizia, libertà, verità, che nell’Altro e che, data la sua inconsistenza, sono tutte cose da intendere piuttosto al plurale.
Slavoj Žižek ha inaugurato la moda di esemplificare concetti della filosofia ma soprattutto della dottrina psicanalitica lacaniana facendo riferimento al cinema. Ricordo due film, peraltro due capolavori della cinematografia europea recente, che si prestano splendidamente per illustrare l’etica del “non cedere sul desiderio”.
Il primo è “The Crying Game”, di Neil Jordan, distribuito in Italia con il titolo piuttosto attinente “La moglie del soldato”.
Fergus, giovane uomo d’azione dalla “coscienza sensibile”, non sa risolvere il conflitto morale che drammaticamente gli è toccato di vivere tra l’imperativo della militanza nell’IRA che gli impone di uccidere il soldato inglese Jody preso in ostaggio, e l’altro imperativo, non si sa se kantianamente patologico o categorico, che in qualche modo prevale e fa sì che non spari a colui che, da nemico, è diventato il suo prossimo, forse dal momento in cui egli lo aiuta a orinare estraendogli il pene dai calzoni dato che ha le mani legate dietro la schiena. Lo stesso Jody gli aveva offerta la soluzione del problema morale con l’antico apologo indiano dello scorpione e della rana: si sarebbe comportato così perché era nella sua natura.
Accade però che invece l’esecuzione si compia per caso, incidentalmente: già, che lo vogliamo o no, natura fatidica o meno, verità e godimento sono effetti contingenti!
È nella natura di Fergus anche tener fede a taciti patti con l’Altro del suo desiderio, per cui esce dal ruolo di guerrigliero in Irlanda ed entra in quello di operaio a Londra dove contatta Dil, la “moglie” e vedova di Jody, un ragazzo travestito che fa la parrucchiera e la femme fatale.
Finirà per raddoppiare l’atto etico quando si assumerà contemporaneamente la responsabilità della morte di Jody e dell’uccisione della fanatica terrorista Jude da parte di Dil.
Dovrà scontare la galera al suo posto, attraversando così due fantasmi, quello della violenza servile ideologica e quello del machismo eterosessuale.
Non sapremo mai, ignorarlo è ciò che da parte nostra si deve a Fergus, eroe del dubbio, se è o non è omosessuale. Lacan peraltro disse che non esiste l’omosessualità, bensì la homo-sessualità, cioè la sessualità umana, una faccenda già di suo oltremodo complicata e inevitabilmente “perversa” ovvero “pere-verse”, originariamente implicata nella legge paterna! È invece credibile per la psicanalisi che nell’atto sessuale, tipicamente alienante e regressivo, si confonda il genere tra proiezioni e introiezioni; per esempio, il desiderio maschile eterosessuale è sempre omosessuale: immagina di trasferire alla partner la sacralità fallica e il piacere fallico per supplire all’assenza del pene (materno) cui non si rassegnerebbe.
Una cosa nel film è sicura e comprovata, c’è l’amore, “l’a-mur”, il rapporto all’ermetico discorso dell’Altro, che non valicherà il muro del “crying game”, la canzone del film, ma che pure non cede sull’offerta del proprio impossibile da dire per l’”analisi interminabile” con un partner destinato ed accidentale allo stesso tempo. Identità e significati fallici, precostituiti, sono dismessi in favore del soggetto e di un senso della vita che non esiste se non viene detto: “Unterwegs zur Sprachen” tra due fatalità mortali, la morte della Cosa (che apre alla possibilità dell’amore nella mancanza in cui c’è posto per la morte dell’Io, uno tra altri oggetti), e la morte più che reale, nel Reale, come esistenza senza senso né amore, cioè mai avvenuta.
Altro che il militante duro e puro dell’Idea, il rivoluzionario che, al pari dell’isterica, trova sempre l’oggetto del suo antagonismo per non perderne il gusto, altro che il perverso, schiavo del “plus-de-jouir” o l’ossessivo sempre comme il faut per non pagare il dazio: Fergus e Dil si sottraggono alla legge del Padre per accettare il rischio di un “amore infinito” in quanto “ancora” indefinito, in cui si scambiano più domande che risposte. Sono “ancora” le parole, tratte dall’apologo della rana e dello scorpione, a sancire la scelta: “Perché l’hai fatto?” – “Perché è nella mia natura…”. Come dire nel desiderio inconscio di essere esattamente quello che noi spettatori abbiamo colto ben presto nel film, un giovane uomo d’azione dalla “coscienza sensibile”, capace di godere a suo modo nelle parole di un amore poco sensato, eppure portatrici di una qualche legge che potrebbe essere quella dell’amore di “Lalangue”.
Il secondo film è il delizioso “Pane e tulipani” di Soldini. L’eroina del desiderio è Rosalba, tenera mamma piccolo borghese che, rimasta casualmente isolata dalla famiglia durante il ritorno da una escursione turistica, tra lapsus madornali e atti mancati, arriva a Venezia, il luogo della contingenza, dove incontra l’improbabile cameriere Fernando, l’uomo del linguaggio che recita a memoria l’Ariosto e parla poeticamente.
In un contesto sottoproletario, l’unico forse in cui si può trovare qualche autenticità e verità sociale, tra improbabili sembianti e credibilissime persone del genere di un pingue idraulico detective atteso come principe azzurro da una “massaggiatrice olistica”, o di quel gentile cameriere nonno islandese ex assassino, o di un fioraio anarchico burbero benefico, Rosalba si imbatte nella tyche del suo desiderio d’arte e amore nelle forme di una fisarmonica che quasi s’era dimenticata di saper suonare e del tulipano offerto da qualche agathos-daimon.
La legge del Padre, rappresentata correttamente dall’amante del marito, le impone il ritorno a Pescara, all’automaton familiare.
La prima sera in cui si corica accanto al marito accenna a qualche spiegazione su quanto le è accaduto durante quella vacanza solo sua in cui sogni e realtà si sono mischiati, ma lui non vuole: “Guarda, Rosalba, per me non è successo niente”. Vuole metterci una pietra sopra, ma, senza che ancora lui o lei ne abbiano coscienza, sarà la pietra tombale del matrimonio.
L’inconscio lavora, un ormai decaduto simulacro di “oggetto piccolo (a)”, in realtà un souvenir come feticcio per rendere sopportabile o rintuzzare il rimpianto, le cade di mano e va in frantumi. Sarà sostituito in metonimia dal bouquet che Fernando le porge nel parcheggio del supermercato e che causa il suo donarsi appassionatamente al più appassionato dei duetti lirici: “Che sorpresa! Mi coglie impreparata” – “La colgo a far la spesa, lo so che è indaffarata”.
Il lieto fine è in qualche misura politico: più di qualcuno, direttamente o indirettamente, trarrà beneficio dal suo colpo di testa. È un lieto fine potentemente trasgressivo delle convenzioni che vede Fernando e Rosalba esibirsi come artisti di strada, lui come tenore di romanze, lei come fisarmonicista, ad accompagnare la novità di un tango nelle calli.
La scelta etica è sempre la scelta di tenere assieme, costi quel che costi, desiderio Legge e godimento. E di permettere, un po’ come fa l’arte, il dispiegarsi del discorso umano in cui si iscrive il nostro destino, in un oltre cui abbandonarsi ma a cui non possono accedere i sogni o le fantasie se manca il supporto della fede nell’Altro simbolico come detentore della chiave immoralista, e perciò “etica”, del nostro desiderio.