137. IL SI E IL NO

Elvio Fachinelli per primo in Italia comprese che l’articolo breve di Freud intitolato “Die Verneinung” poteva servire da viatico per chi volesse accedere alla dottrina psicanalitica come i ben più corposi testi sulla psicopatologia della vita quotidiana o sull’interpretazione dei sogni, distante com’è da questi di un quarto di secolo. Forse solo l’altrettanto breve prefazione al saggio di J. G. Bourke su “Escrementi e Civiltà”, scritta nel mezzo di questo intervallo cronologico, mostra del pari la dirompenza della psicanalisi rispetto ogni altro sistema di pensiero tradizionale.

 L’interesse per la fenomenologia della negazione è peraltro centrale anche in tutta la speculazione di Lacan se ci riferiamo al rapporto complesso che il soggetto intrattiene con l’Altro simbolico che ci nega la verità del significato. “Perché non ci dice il vero sul vero”? Perché non è vero.

 Freud faceva risalire la negazione a quel processo primario per cui il neonato, uscendo dall’indifferenziato percettivo, cioè da ciò che resterà come lacaniana Cosa del Reale, incorpora l’evento gratificante di cui costituirà l’Io all’insegna del “principio di piacere” ed espelle l’evento frustrante di cui costituirà il mondo esterno all’insegna del “principio di realtà”. Di questa biforcazione c’è un resto che ha nome di inconscio.

 Possiamo vedere questo momento pre-logico come precursore, nella fase cosiddetta orale in cui gli eventi sono “oggetti buoni o cattivi”, di quelle successive alienazioni e separazioni in cui i due momenti e gli oggetti relativi si integreranno alla meno peggio soggettivamente e da cui potranno dipartirsi (modularmente, non effettivamente) le due psicosi paranoide proiettiva e schizoide introiettiva e le due nevrosi isterica e ossessiva quando il bambino o la bambina dovranno operare una scelta “stilistica” nel mondo simbolico che viene loro offerto come ordinatore dei godimenti sperimentati ma soprattutto sperati. Certe parole invece di altre per dire ciò che non c’è più, ciò che non mancava di nulla. Scelta in cui si sono fatti una ragione delle rinunce pulsionali e libidiche e il cui prezzo è pagato dall’inconscio. Proprio quella ragione repressiva interverrà nel discorso, se serve, come negazione più che come affermazione.

 In entrambi i versanti patologici sarà il mondo del no a coincidere con le istanze dell’inconscio: un no al senso che l’Altro ci promette nel simbolico apparentemente in alternativa al godimento, così che gli si volti le spalle per raccattarne un po’ nell’immaginario dalle parti dell’oggetto (a), o viceversa un no al senso troppo misterioso di un godimento alluso come possibile al di qua o al di là dell’Altro. Nel primo caso sembrerebbero mentire le parole rispetto le cose, nel secondo le cose rispetto le parole reificate.

 Ecco perché non fallisce mai l’escamotage dell’analista freudiano che chiede al paziente: “Qual è, secondo Lei, la cosa più inverosimile fra tutte in quella situazione? Che cosa a Suo parere era allora più lungi da Lei?” Tanto che si può essere certi che in quella faccenda negata sia l’istanza inconscia causa della rappresentazione al centro del discorso. (Che possa fallire invece con il moderno paziente “esperto” è un buffo effetto collaterale della cultura psicanalitica…).

 Finché c’è l’inconscio la verità è più del no sintagmatico che del sì paradigmatico. Quando sono andato a chiedere ai medici cosa ci fosse da sperare per il ristabilimento di un mio amico gravemente ammalato mi fu risposto: “Noi non gettiamo la spugna”. Levai il non e me ne andai sconsolato.

 È la portata gigantesca che anche Lacan attribuisce alla negazione, che solo apparentemente può ricordarci la vecchia storia della excusatio non petita o, come qualcuno ha osservato a rovescio, la maligna osservazione: “Ecco, tu l’hai detto…!”.

 Lacan ci dice che “il soggetto riceve il suo proprio messaggio dall’Altro in forma (sous une forme) invertita” (manca poco che sia negata, no?) e poi che l’inconscio è il discorso dell’Altro, stabilendosi così una priorità logica dell’inconscio nel discorso. Ma è anche indubbio che, non esistendo l’Altro se non come esclusione di ogni Altro immaginario, l’inconscio stesso sia nella sua origine del Reale distaccato nel Simbolico al livello primordiale della “lettera in credito di significazione”, pre-senso, e abbia perciò la priorità logica che può avere tutta la struttura dei significanti in sé, pur per una logica diversa e parallela che di quella può essere la negazione. Ci induce a pensarlo sia la definizione che ne dà Freud, sia quella che ne dà Lacan.

 Rispettivamente, Freud: “…il migliore significato del termine ‘inconscio’ è quello descrittivo; chiamiamo inconscio un processo psichico di cui dobbiamo supporre l’esistenza – per esempio perché la deduciamo dai suoi effetti – ma del quale non sappiamo nulla”; Lacan: “(l’inconscio) è il luogo presente per tutti e chiuso a ognuno in cui Freud ha scoperto che, senza che ci si pensi, e dunque senza che qualcuno possa pensare di pensarci meglio di un altro, c’è chi pensa…”.

 Passiamo a cosa dice Lacan del Reale dopo aver detto fin da bell’inizio che è un concetto negativo: “il Reale non è il mondo” o la realtà… È il Simbolico a creare il mondo delle cose (la realtà) inizialmente confuse nell’hic et nunc del tutto in divenire…”; “… il Reale non attende il soggetto… ma è lì, identico alla sua esistenza, rumore in cui si può tutto intendere, e pronto a sommergere dei suoi bagliori quel che il ‘principio di realtà’ vi costruisce nella definizione (sous le nome) di mondo esterno”. Insomma, di noi se ne frega mentre noi non possiamo fregarcene ma solo negarne la presenza effettuale sostituendovi la realtà più o meno desiderabile e illusoria.

 A questo punto credo sia legittimo azzardare che, se la psicanalisi serve per accedere alla verità dell’inconscio in uno slancio verso il Reale, cioè alla verità del nostro godimento, ed è questo che ci dice Lacan soprattutto nell’ultima fase del suo insegnamento, come punto di arrivo si può trattare solo di negare le prime negazioni creatrici di una realtà fantasmatica. Del “fort” e del “da” farsene prima o poi una ragione: dall’auto-privazione alla mancanza. Di che si tratta se non di darsi all’Altro nella sua incompletezza riguardo il senso per assumercene direttamente la responsabilità? La responsabilità della bugia in ogni affermazione.

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