Nelle democrazie in cui, come in Italia, c’è molta politica, probabilmente più che in tutte le altre nazioni del mondo, c’è anche molto trasformismo parlamentare.
Dagli ex colleghi di partito il transfuga è additato come infame perché il fatto che conservi un seggio in Parlamento a dispetto della sua tessera sottoscritta fa dimenticare che non c’è il cosiddetto vincolo di mandato per esplicito dettato costituzionale. Paradossalmente sarebbe scandaloso sia che il parlamentare restasse nello stesso gruppo con sue mutate convinzioni cedendo su di esse, sia che lasciasse lo scranno cedendo sulla sua vocazione come convinzione che la politica parlamentare possa avere qualche buona ricaduta pratica, legislativa: che fosse in malafede? Scherzava?
La delega democratica si riscatta in quanto delega solo per essere idealmente soggettiva sia nel delegante che nel delegato. Ma non basta: resta in generale dimenticato che un vincolo d’onore potrebbe essere riferito solo al programma di un partito in quanto diverso da un altro, non al mandato da partito a candidato in base a pura appartenenza, né da elettore ad eletto in base a chiacchiere intorno a un programma, mentre viene curiosamente preteso proprio da coloro che i partiti non li vogliono dicendo obsoleta la loro mediazione programmatica.
Un vincolo d’onore che non passi per un travaglio simbolico o è mafioso o è barbarico. Il fatto di delegare non dovrebbe significare pigrizia intellettuale che rifugga da conflitti.
D’altra parte, un programma politico non è un’applicazione algoritmica che copra tutta la realtà, interpreta e compone “patologie” umane come bisogni, desideri, possibilità. Non è neanche un contratto notarile volto ad escludere la contingenza. Ogni scienza, anche la scienza della politica sta per prima cosa nel saper porre i problemi. Il “gruppo misto” in Parlamento è previsto per questo.
Oggi si fa un gran parlare di tradimento come del paradigma di immoralità, il peggio che ci sia, quando invece potrebbe anche far segno di verità: dipende. “Il voltagabbana” è il titolo di un romanzo di Davide Lajolo, il pentitista, in cui il moralismo si diluisce nell’autobiografia di una vita vissuta a viso aperto all’insegna del desiderio “erratico e scandaloso” più che della fedeltà a una bandiera ideologica, ma infine per passare da una a un’altra. È la politica, scegliere una parte o almeno scegliere un alleato.
L’unica faccenda umana de-patologizzata, da cui sia sottratta interpretazione e contingenza, è la Scienza in sé e per sé, l’annotazione di alcune pure regolarità, che forse farà anche a meno degli scienziati ma che si spera non faccia a meno della politica che ha assorbito in sé l’etica, quella “Ragion Pratica” che per Kant, il suo inventore, vale più della Ragion Pura. Oggi l’incontro/sfida tra Ragion Pratica e Ragion Pura è nella tecnologia e nella produzione, sempre più dipendenti dal metodo scientifico: costruisce e impone significati su cui la politica deve vigilare dalla posizione del significante fuori da ogni idealismo, poiché, di ritorno, organizzano il sistema degli scambi sociali in ossequio a un potere primigenio rispetto al quale i soggetti dovrebbero pur prendere posizione.
Si sa che le faccende sociali più pericolose sono quelle de-patologizzate, i principi assoluti che obnubilano il desiderio: dovrebbe bastare per sancire un primato della politica sulla scienza, ma egualmente si erge il problema di chi veramente infine decide, data la possibilità che ha la tecnologia di interferire con il Reale di tutti. Forse è in atto il progetto di far prevalere in politica la Ragion Pura, la Scienza, senza chiedersi quanto sia pura. È il problema che ancora non tocca Hegel, mentre Heidegger in proposito si ferma a un generico seppur raffinato luddismo.
Da almeno cinquant’anni un fantasma si aggira in Europa, la democrazia diretta, assembleare, che da un po’ si presenta in veste telematica, un ectoplasma come parodia tecnologica delle assemblee del ’68 che si contrapponevano ai partiti, senza i quali peraltro non esiste democrazia né mai è esistita: al minimo, mentre si recavano all’Agorà, i cittadini ateniesi già litigavano raggruppati in base a una dialettica da riprodurre nell’assemblea. Come ideologia per lo più, obliati in essa i primi motivi dirimenti… Raggrupparsi, scegliere una parte, non sarà puro, ma è pratico. Tanto più quanto provvisoriamente.
Non si parla oggi di democrazia “diretta” senza immaginarla paritaria, cioè che tutti possano votare e che ciascun voto valga come ogni altro ma in assoluta autonomia soggettiva nel percorso dall’opinione alla pratica delle leggi: è ovviamente una cosa che non c’è mai stata e non potrà funzionare mai, solo qualche scemo può pensarci seriamente, basti pensare al limite di età per votare, agli squilibri nel sapere e alla presenza molecolare di carismi personali e suggestioni che obnubilino il giudizio. O al conflitto tra attese e scopi definiti che, senza mediazioni e composizioni preliminari, porterebbe sì a scansare una oligarchia, ma anche a una tremenda dittatura della maggioranza. Per ovviarvi bisognerebbe costringere ognuno a consumare la propria vita per decidere continuamente e autocraticamente su mille cose che non gli interessano affatto o, viceversa, a decidere su tutto senza cognizione di causa.
Chi ne parla, di solito si riferisce alla dignità soggettiva che non consente di delegare ad altri il nostro destino, ma anche questa è una balla, il massimo di dignità soggettiva può essere nella fiducia che si ha in qualcun altro. La fiducia, ecco un corrispettivo dalla virtù teologale della Fede da estrarre ed aggiungere alle quattro classiche virtù cardinali. Quante faccende della nostra vita da sempre affidiamo a chi ne sa di più? Importante è poter dare e ritirare la delega a ragion veduta.
Si capirà prima o poi che l’essenza della politica sono le alleanze possibilmente leali seppure provvisorie? Che l’essenza simbolica della democrazia è custodire un luogo (fantasmatico, violenza messa in mora…) dedicato al dissenso da essa stessa?
E che, volando più bassi e andando alla concretezza, si capirà che la democrazia non c’è se non c’è uno statuto dei partiti come antidoto ai populismi e agli eccessi di personalismo e il loro finanziamento solo pubblico come antidoto al lobbismo?