In “Un Altro Mare” Magris crea da un personaggio realmente vissuto un carattere paradigmatico per la letteratura e non solo, una personalità esemplare nel bene e nel male, per cui si potrebbe dire “un Mreule” come si dice “un Donchisciotte” o “un Giamburrasca”. Ma anche come si dice “una Dora” o “un Uomo dei Topi”.
Enrico Mreule è in verità un castigo di Dio, scostante con uomini e donne, insegue un delirio di perfezione ascetica, scambiando il Buddha o Parmenide per critici della modernità e il male della modernità per male della tecnologia invece che del capitalismo che la partorisce e se ne appropria avendo già sedotto la scienza. Non è di certo l’unico, un altro, coerente all’estremo, abitava in una capanna nel Montana da dove spediva pacchi-bomba, un altro, meno coerente, abitava nella Foresta Nera. Lui invece, come finale privato romitaggio sceglie la punta di Salvore, in Istria. È anche un uomo molto bello e la bellezza può servire, come la ricchezza, a velare una psicosi.
Filologo classico, Enrico Mreule mostra i segni di una speciale sublimazione malignamente monomaniacale che di solito è l’esito di un trauma adolescenziale come riedizione del trauma originario. È probabilmente su questo sfondo che il suicidio del suo fraterno amico Carlo Michelstaedter colpisce la sua anima già suscettibile e in fuga e fa sì che egli elevi l’oggetto “filosofia di Carlo” alla dignità della sua Cosa pulsionale e che null’altro abbia più importanza. Si tratta di una filosofia solipsistica e vitalistica che egli realizza in sé stesso come misantropia e regressione alla naturalità, naturalmente immaginaria.
È abbastanza evidente, per quanto sottaciuto nelle stupende pagine di Magris, un latente senso di colpa che mette in moto la sindrome; ma, se è facile intuire che qualche tendenza sadica possa sublimarsi nella professione di un chirurgo, quale mai sarà stato il fantasma regressivo di un filologo che decide di farsi gaucho nelle pampas? Comunque lo pagò, bypassando la sublimazione, con una misantropia radicale, sintomatica di una caratteropatia in cui avviliva anche sé stesso, forse nel tentativo di attuare e allo stesso tempo smentire la santità impossibile attribuita a lui, Rico, proprio da Carlo nel “Dialogo della salute”. Arduo è il compito di impersonare il Vero Uomo, a tutti i costi il “persuaso”: in spregio alla retorica si finisce per disumanizzarsi.
Mreule, lettore di Schopenhauer, vuole sottrarsi al “patologico” kantiano, il che non è affatto desiderabile neanche secondo lo stesso Kant nella lettura che ne fa Schopenhauer, sottraendosi così al senso più corrente delle cose. Che altro non è che il senso delle parole, con tutta la difficoltà di sottrarle all’egida del Nome del Padre o alla retorica del padrone. Enrico vi abdica, se non afasico diventa taciturno, ma conserva una lisa bandiera fallica che porta con sé in Argentina e poi nella penisola istriana.
Questo ricorda molto la fuga di Rimbaud dalla poesia verso una vita muta e impossibile oppure “a perdere”, e un po’ l’operazione di Joyce nel “Finnegans Wake” come fuga dalla convenzione che lega scrittore e lettore. Il desiderio dell’eccentrico è il risentimento verso le convenienze, il sapere paterno.
Enrico, Carlo e James avevano seri problemi con il padre, ma il terzo capisce (capisce?) che la soluzione del problema non è nel combattimento con le parole date, nella logomachia sottesa con il padre simbolico, ma nell’arte, nella sua particolare scrittura che rielabora le parole ricreandole come cose nuove attingendo alla loro lettera pre-significante. Joyce sposa il suo sintomo, mostra di saperci fare come (forse) con Nora, e vive, sia pure nella posizione un po’ psicotica dell’artista che comporta una normale boheme. Lo illustra Lacan nel Seminario XXIII: Joyce crea artisticamente Joyce quasi come un padre novello per suo padre.
Malauguratamente Michelstaedter accetta invece la sfida del combattimento ad armi pari, se non a viso aperto, con il padre, ed è una sconfitta annunciata al cospetto della madre, come sempre. Anche Michelstaedter crea definitivamente sé stesso, ma a che prezzo! Un prezzo più alto di quello che Dostoevskij impone a Mitja Karamazov.
Perché si uccide? Si possono trovare dietro il gesto le parole più autentiche? Se lo sono chiesto tanti, ma è inutile: si uccide come tanti altri intellettuali, moderni e occidentali, per la rabbia che urta, come il moscone sul vetro, contro il limite che il linguaggio impone agli esseri sessuati e parlanti. Invidia e conseguente odio per un Altro se lo si suppone esistere senza tale limite: “perché non dice il vero sul vero?”.
Se leggiamo “Persuasione e Rettorica” incontriamo un linguaggio un po’ pretenzioso che persegue il possibile, non un linguaggio impossibile che persegua un senso inedito come in altri filosofi. Nell’ottica lacaniana del soggetto diviso, il filosofo Carlo forse sa che vera è la limitatezza che il ragazzo Carlo odia, ma è la solita consapevolezza a metà che a lui finirà per non bastare.
In quella soffitta dei Paternolli si creò un nodo di fare e sapere più inestricabile di quello di “Fulviargiaula”. Carlo lo sciolse come il grande pupillo di Aristotele il nodo di Gordo, ma da moderno, con la pistola, Nino Paternolli in qualche modo riuscì a sciogliersene, Rico ne rimase avvolto.
Rico Mreule si pone come un Licurgo o come il legislatore del “roveto ardente” e fa affidamento sul suo godimento vindice e caparbio più che sul desiderio, sposa l’osceno Super Io, come direbbe Žižek. Già Schiller aveva colto l’assolutismo improvvido del legislatore spartano a confronto con il realismo di un Solone, l’ateniese.
L’impossibilità della santità diventa per Rico la possibilità di un risentimento psicotico che qualche volta, ed è il suo caso, comporta una certa longevità. A dimostrazione, una volta di più, che non c’è luogo dove fuggire dalla mediocrità della vita e, se si può morire gratis, non si può diventare vecchi gratis.