Magris attribuisce al suo personaggio un sentimento probabilmente più tenero di quanto Enrico Mreule in persona poteva o voleva veramente provare: “Non si ama una donna o un uomo, ma uno sguardo, il mare che c’è dentro, un sorriso al di qua del sesso”. Certo, si ama la particolarità che possa corrispondere alla singolarità dell’inconscio, non la donna o l’uomo descrivibili in un discorso complessivo che illusoriamente voglia aggirare la specularità. Bisogna che un uomo abbia vissuto il lutto per non aver trovato la Donna universale e che una donna non pensi di poterla impersonare per un uomo eccezionale: due proiezioni dell’Io Ideale in cui identificarsi senza alcuna possibilità di complementarità reale.
La singolarità è un “extra”, un piccolo particolare che fa da tratto “unario” identificante e diversificante come, per il famoso esempio di Žižek, lo chignon di Madeleine nel film “Vertigo” di Hitchcock. L’oggetto autonomo nel luogo della mancanza. O più semplicemente un nome da invocare. Mille significanti, mille parole, non dicono dell’oggetto del nostro amore quanto può dire il suo nome proprio. “L’amore”, dice Lacan, “è amore per il nome”, forse appunto per l’unica cosa che ben si presta all’invocazione e al grido, che è “al di qua del senso” e perciò del sesso, un po’ prima della realtà semblant che vi corrisponde. Un significante che esibisce autonomia nella catena della significazione. Che altro significa il nome se non la mancanza di altri significanti per dire tutto ciò che l´ amante può significare?
A proposito di Madeleine, c’è stato un biscotto dello stesso nome che mise in moto per aspetti di memoria anche involontaria, tramite una fragranza trattata direttamente nell’amigdala prima che nel talamo, l’enorme struttura della “Recherche” proustiana, con la sua pura funzione di oggetto estimo, intimo ed intruso allo stesso tempo nella struttura dei ricordi. (Si dice anche che André Gide avesse interrotto la lettura della “Recherche” a pagina 63 imbattendosi nel nome della moglie per lui tanto problematica, Madeleine…).
Inevitabilmente tendenti a strutturarsi, quando li si scrivono, i ricordi, che Proust lo volesse o meno, intorno a qualche oggetto che segna un vuoto. La mancanza fondante ed eterna della Cosa.
Se Proust mirasse scientemente, nei 12 anni di scrittura, alla sincronia in favore del senso invece che dei significati, diacronici, storici, non saprei, ma non ho mai avuto l’impressione che nella sua rimemorazione mirasse a cercare sé stesso in una “selva oscura” di significati nei d’intorni di Delfi, ma, più clinicamente, a cercare la causa di sé stesso nei discorsi di Swann, dei Guermantes, di Charlus o, a rovescio, dei Verdurin, Sempre teso verso un tempo da ritrovare scalando quegli incontri di là di ogni futile rimpianto, tanto da azzardare infine di averlo trovato comprendendo forse che per paura di perdere qualcosa si può perdere tutto.
Le particolarità nella nostra esperienza sono troppe per essere ripercorse e catalogate. A scremarle, succede che una particolarità ad un tratto si impone sulle altre e appare essere supplementare a tutto ciò di cui abbiamo avuto esperienza, a tutto il resto. Un significante enigmatico, avulso da significazione e senso che fa da nostro pendant tanto da significare la mancanza di sapere come mancanza di essere. Il soggetto e il senso sarebbero sincronici, per sempre, ma devono vedersela con il tempo, gli eventi. Il soggetto, nel suo appassionato attaccamento ai significanti che lo rappresentano, non vorrebbe cambiare ma, voglia o non voglia, cambia la sua posizione tra i significati. Bisogna saper salvare il desiderio e adattarlo al cambiamento in cui non c’è perdita senza acquisto. Non è facile, è un’arte. Talvolta, per recuperare la nostra essenza tra l’oggetto autonomo della mancanza e l’Altro, la complementarità della vita, ci si ritira in triste solitudine. È il caso in cui la mancanza viene equivocata come privazione o come espiazione.
L’oggetto della mancanza per Proust può essere Albertine, che fa rima con Mnemosine, la madre delle nove muse oltre che personificazione mitologica della memoria; invece, per Enrico Mreule l’oggetto è il ricordo definitivo di Carlo.