143. IL CORPO

 Abbiamo sempre voluto farci rappresentare da segni extracorporei, suoni, fonemi, di cui il nome proprio è il punto di arrivo nel simbolico vero e proprio, lacaniano, oppure da segni che suppliscano il corpo a livello di involucro immaginario, ritratto iconografico, statuaria, vestiti, orpelli, tatuaggi, timbri in luogo di orme, che tuttavia, volendo significare qualcosa che va al di là del nostro corpo, per esempio un diritto o un’attesa di godimento (in questo caso siamo alla “parata”), sono anche dei simboli nel senso corrente, per cui la loro immagine, infine cifrata, dovrebbe significare noi stessi nella realtà come persone fatte, come si diceva una volta, di anima e di corpo.

 Sono rare le autorappresentazioni in quanto corpo nudo e crudo, sede di tutte le funzioni risapute nessuna esclusa: la nudità esibizionista, il cosiddetto “nudo”, cui sembrano indulgere le donne e da un po’ anche gli uomini in una parodia dell’atleta della classicità, è fatto, per come è fatto, più per sviare l’attenzione da qualche verità del corpo che per inseguirne una nuda verità mescolando arte e scienza. Così è sempre stato, fare del corpo un’idea, cioè idealizzarne l’immagine o fare immagine dell’idea, è sempre stata la costante culturale per eccellenza. Apollinea, direbbe Nietzsche, cioè, suggerisce Lacan, volta a temperare il godimento.

 In questo, il “porno” non fa eccezione: dei corpi impegnati nello spettacolo esibisce solo gli aspetti funzionali al messaggio fallico dovendo attenersi a due condizioni in “double bind”, quella per cui l’eccitazione va tenuta a bada in favore della performance e quella per cui solo nell’eccitazione gradiamo l’intimità con odori corporali che altrimenti ci ripugnerebbero, e il suo rovescio, per cui in condizioni normali possiamo gradire l’intimità con i nostri secreti ma non quelli altrui… È la verità del pudore cui, per esempio. non sfugge neanche la sensualità fatta verità di un Walt Whitman.

 A questo punto ricordiamo che per la psicanalisi un’interezza di anima e di corpo, psiche e soma, che prende il nome di essere umano, avendo da mettere in conto l’inconscio come resto (del suo particolare ethos), si fa rappresentare dai sintomi che, effetto indiziario di qualche godimento inaccettabile, per non apparire impudichi si esprimono in frammenti di discorso o si nascondono dietro comportamenti stereotipati. Apparenze, per non dire menzogne: come diceva Carmelo Bene, siamo noi che dobbiamo apparire alla Madonna… probabilmente voleva dire trasmettere una nostra epifania all’Altro, cioè, nella visione della “figura”, l’icona, le informazioni che vogliamo trasmettergli su noi stessi, ma non altre e non tutte. Sta forse in ciò il prevalere nell’informazione moderna delle immagini sul discorso. Un pubblicitario diceva che “un’immagine vale più di mille parole”: non esageriamo, vale le poche parole che suscita, se le suscita, nella visione come eccedenti quelle che già c’erano nell’intenzione iconografica, compresse come in una molla.

 Quanto si è diffuso e come potrà ancora diffondersi l’uso di strumenti extracorporei per trasmettere informazioni su di noi, esse sì incorporee del tutto ma atte a sorreggere l’icona oggettuale da offrire in pubblico! Elaborazioni computerizzate, telefonini, Whatsapp, Instagram, ecc., fino ad arrivare all’”Avatar” per una qualsiasi interezza epifanica, o infine a un nostro spettrale ologramma. È il mondo della cosiddetta intersoggettività che invece, a detta di Žižek, è senz’altro dell’”interoggettività”.

 Vediamo che per essere e agire nel mondo è sempre meno necessaria la presenza corporea quando la stessa presenza non risponda invece alla specificità dell’effetto da produrre per suo mezzo. È il caso dei cosiddetti testimonials, i personaggi che in televisione sembrano quasi veri come quelli che possiamo incrociare in strada, oppure i divi della carta patinata. L’effetto allo stesso tempo minimo e straordinario è di dare una prova di esistenza che qualche volta in tutti noi sembra venir meno con una sensazione di irrilevanza nel mondo, peraltro collegabile a difetto di godimento, la famosa “afanisi”, concetto che Lacan riprende da Ernst Jones. Si è certi di essere quando si gode e si soffre, altrimenti, per averne la prova, cosa non si farebbe pur di apparire in televisione!

 Le compagini politiche valutano bene se il messaggio agli elettori debba essere accompagnato dalla visione del corpo o meno a seconda di chi si assume l’onere di trasmetterlo; pertanto, lo si sceglierà e acconcerà al meglio. Mussolini a torso nudo, “trebbiatore-instancabile-e-metodico”, inaugura la scelta del corpo espressivo in politica, ma quando per espressivo si intende non- realistico. Forse mi ripeto, ma il corpo triviale così com’è può essere presente solo eccezionalmente e tendenziosamente, apparendo per un attimo, in questo caso, il corpo che il capo è, ma per essere subito dopo percepito come si deve, un corpo che il capo ha come l’abbiamo tutti noi, il popolo, ma che nel suo caso vale di più: dall’immagine al simbolo.

 In generale nell’epifania umana moderna si divarica sempre più la presenza oggettuale del corpo e la comunicazione soggettiva. Nello “jogging” o in palestra sul tapis roulant si mette in gioco un corpo come mezzo e come scopo senza profferir parola, mentre si parla molto al telefono e nei “socials”, dove il corpo è occultato oppure raffigurato in quanto espressivo.

 Una volta era privilegio di sovrani e sacerdoti comunicare prescindendo dalla presenza corporea oppure tanto paludati da poter esibire un sosia sotto l’abito; lo facevano perché tornava loro utile nascondere la verità di essere come tutti gli altri e sottrarsi alla verità che emerge nella favola del “Re nudo”. Si può anche capire l’anonimato del capitalista in cui si nasconde la verità che il soggetto non è lui ma il capitale; ma noi, gente normale, quale verità vogliamo nascondere oggi più che mai senza rendercene conto?

 Si può azzardare che, a fronte di una esibizione a volte sfacciata del corpo in favore di un teatro virtuale, quel votarsi alla generalizzazione dei messaggi pretercorporei, sia mosso dall’intenzione di chiudere a doppia mandata in qualche nostro sgabuzzo ideologico una verità assolutamente privata e intima del soggetto, l’inconscio dei godimenti sintomatici, che invece vorrebbe dire la sua, trovandosi ad essere sempre dissonante con il discorso repressivo dell’epoca: paura della voglia di ribellarsi al “disagio della civiltà”.

 Effettivamente l’inconscio, la nostra verità più vera, il nostro poco sapere sul Reale, non c’è se non c’è il corpo, almeno finché siamo vivi, dopo di che non si sa cosa ne rimanga, chi dice una cosa chi un’altra…

 Andiamo alla pratica della verità: per saggiare la verità nell’interlocutore, non spiamo forse i segnali del corpo, l’umidore dei suoi occhi o il volgerli sfuggendo il nostro sguardo, un tremore nelle mani, una sudorazione o un rossore improvviso, un diverso ritmo del respiro? Non è così che funziona quell’ingegnoso utensile americano detto “macchina della verità”?

 L’attrattiva un po’ sadica che ancora suscitano i dibattiti in televisione, perso l’interesse per gli argomenti che non cavano un ragno dal buco, non dipende neanche più dallo spettacolo assicurato dalla foga nella polemica, quanto voyeuristicamente dai segni emotivi che possiamo cogliere nei partecipanti al dibattito e che supponiamo non vorrebbero che trasparissero. È il contrappunto o il rovescio del fatto che, mentre sui socials si chiacchiera tanto con degli sconosciuti, in autobus o in ascensore si sta muti e chiusi in volto, come se la presenza nell’interezza di corpo e anima ci imbarazzasse. Non si tratta evidentemente di difendere qualche menzogna, ma di difendere preventivamente una verità privata che ci sembra meglio resti tale e che qualsiasi parola o segno emotivo potrebbe svelare e consegnare ai presenti, avendone forse un im-mediato riscontro non del tutto scontato in quanto ad approvazione: possiamo anche chiamarla riservatezza, virtù che sta diventando fin troppo di moda se non si è in televisione o anonimi in rete, la cui specialità è per lo più di tenere separati e differiti in due diversi palcoscenici, la vita personale con uso del corpo e quella con l’uso del linguaggio.

 Comunque, quando la prossimità fisica tra persone supera certi limiti in un contesto non ritualizzato per consentirlo, scatta un atteggiamento di difesa preventiva che inibisce la comunicazione. Anche, è stata la psicanalisi a scoprirlo, a scanso di tentazioni erotiche.

 Si comunica, ci insegna Lacan, soprattutto per sentirsi accomunati nel Grande altro, senza un immediato scopo pratico, cioè per essere riconosciuti: ma, qui sta il punto, per essere riconosciuti nella verità della eterna mancanza di qualcosa, che ci accomuna veramente, o nella parata megalomane cosiddetta “interattiva” che si fa scudo di un Io ideale?

 Oggi c’è qualcosa che assomiglia a una fobia nel non voler mostrare la minima debolezza di carattere e nella scelta di comunicare con gli strumenti e nelle circostanze che assecondino meglio tale ritrosia di principio: eppure, pensandoci, sarebbe difficile essere veramente amici di chi si guardasse ad ogni costo dal lasciarla trasparire, la debolezza… Ebbene, oggi la tendenza è proprio di collegarsi agli altri in un “Noi” che possa fare a meno degli affetti relativi alle nostre singolari e inevitabili miserie di corpo e anima senza le quali tuttavia l’Eros non trova la via dell’amore.

 La psicanalisi, nella sua definizione di “talking cure”, con il termine “cure” più rispondente oggi a Sorge in tedesco che a Behandlung, sembra mettere tra parentesi il corpo dell’analizzante che se ne sta lì mummificato ed etereo, trasformato sul divano in puro, troppo puro “parlessere”, e del pari il corpo dell’analista, fuori campo visivo e, in quanto al parlessere, silenzioso, a sua volta cadaverizzato. Sembra assecondare una tendenza moderna a privilegiare ciò che si presenti etereo.

 Naturalmente non è così, sappiamo benissimo che non si può fare psicanalisi per telefono; sappiamo anche quanti effetti nel corpo dell’analizzante abbia il discorso dell’Altro che si svolge entro la regola fondamentale in cortocircuito di senso e non senso nelle metafore e nelle metonimie strampalate che si affacciano alla coscienza: si riferiscono manifestazioni compulsive di ogni genere, riso, pianto, tachicardie, asma, formicolii, paralisi, dolori alto-lombari, deliquio prevenuto solo dalla posizione distesa che assicura l’irrorazione cerebrale, ecc.

 Sappiamo che l’abilità dell’analista consiste nell’individuare nel flusso dei significanti il momento in cui ci vuole una interpunzione, un taglio, affinché avvenga una significazione sulla via della verità, cioè che la struttura si sveli nelle sue forme di paradigma e sintagma, metafora e metonimia, proiezione e introiezione. In altre parole, che la verità mostri il suo lato di finzione, che è proprio il lato in cui di solito e oggi più che mai si vuole relegare il corpo. Queste interpunzioni possono essere una parola ripresa nel flusso o qualsiasi altro significante, Vorstellungräpresentanz, la parola che segna la sospensione della seduta, per esempio, in cui il corpo riacquista la posizione eretta a noi destinata, oppure un semplice “beh! …” che vuol dire tutto e niente in quanto approvazione o deplorazione. Può essere la trasformazione “ad arte” di una parola in un’altra più per etimologia o per assonanza che per senso, ma in tutti i casi l’analista vorrà introdurre nel discorso tacito e virtuale dell’Altro, sospeso a mezz’aria, di cui l’analizzante è in ascolto mentre parla, non un vero significante bell’e fatto, piuttosto una “lettera”, il suo supporto concreto, corporeo, che forse, ripeto forse, troverà significazione, la parola attesa che apre una via di deflusso nel Simbolico per gli ingorghi dell’Immaginario e del Reale in cui stagnano il desiderio, la Legge e il godimento. Poiché l’Altro in realtà non esiste, nel Simbolico la lettera significa l’apertura al Reale che include il corpo.

 La presenza in carne ed ossa dell’analista è una specie di “corpo mistico” dell’Altro deficitario, metafora di tutti i suoi sedimenti immaginari, esauriti i quali qualche verità del Reale può farsi avanti. Il silenzio non interventista dell’analista, il rifiuto di nutrire l’immaginario con il simbolico, mette in risalto nella frustrazione del senso un possibile significato essenziale e ignorato: il luogo del trauma, precisamente il luogo del corpo dove l’Immaginario si è ammalato, contaminato da qualche parola malintesa cui non si è creduto che l’Altro possa rimediare perdonando il corpo come significato colpevole della mancanza di un significante esauriente ed ammissibile. Di chi è questa colpa se non del corpo?

 In una analisi non manca il momento della solidarietà che leghi due corpi inermi ed esposti al godimento, disarmati del Senso, come esito di una dissimmetria di principio che sembrava essere riservata ad uno solo, quello disteso. Resta che un’intesa soggettiva è molto più semplice da pensare se si leva il corpo di mezzo, ma sarebbe finta.

 Malgrado la mia ritrosia (questione di cattivo carattere) a dare credito ipso facto ai racconti di casi clinici, quasi sempre edulcorati con ingredienti dottrinali, ne riporto uno attribuito ad una analisi condotta da una analista ungherese naturalizzata francese di cui riporto l’iniziale del cognome, T. Si tratta di res relata della cui veridicità non mi assumo la responsabilità, ma che torna utile riprendere qui per la greve corporalità della “lettera” in cui consistette un intervento da parte dell’analista. Mi fu raccontato con dovizia di particolari che stranamente ricordo bene pur essendo trascorsi anni, e mi fu detto che il caso era stato pubblicato e che il resoconto trasmesso vi corrispondeva nei dettagli, ma non ne ho trovato traccia nella letteratura in cui pure mi fu suggerito di cercarlo.

 Un medico chirurgo è risposato da qualche anno con una donna di cui era da tempo innamorato e per la quale ha divorziato dalla prima moglie. Riferisce alcuni sintomi che lui individua come tali: fin quasi da subito nel nuovo matrimonio ha incominciato a soffrire di impotenza funzionale e di un calo del desiderio erotico verso la moglie, cosa mai avvenuta in precedenza e che non avviene fuori dal contesto matrimoniale quando vi indulge sentendosi tuttavia molto colpevole. È affetto, in concomitanza, da ricorrenti gastriti che gli fanno temere ogni sorta di patologie per le quali ogni esame obiettivo risulta negativo. Divide il suo tempo libero dedicandosi all’atletica e scrivendo una massa di poesie molte delle quali dedica alla moglie. È stata la moglie, anche lei medico, donna molto bella e attiva nel femminismo, che lui definisce “molto spirituale”, ad indirizzarlo all’analisi. Con molta fatica e reticenza, dopo più di un anno di analisi condotta con quattro sedute settimanali per le quali deve spostarsi impiegando due ore dalla provincia a Parigi, si chiarisce il fantasma che si interpone a che possano compiersi gli incontri matrimoniali: la moglie non si cura di trattenere al mattino prima di svegliarsi completamente qualche flatulenza rumorosa, cosa che gli ricorda l’abitudine del suocero, padre della prima moglie e nonno affettuoso di suo figlio undicenne, che indulgeva ai peti, secondo lui, in maniera voluta, perversa e odiosa. L’analisi procede con qualche miglioramento nel senso di un avvicinamento erotico nella coppia finché il ragazzetto non incomincia ad imitare il vizio del nonno, secondo lui per provocarlo, e senza ottenere dalla moglie le reprimende che gli sembravano appropriate, essendo lei più preoccupata per alcuni disturbi alimentari del figlio. Si apre un periodo particolarmente infausto nella vita e nell’analisi, con qualche svogliatezza che si rivela nel mancare le sedute e con silenzi prolungati che lo imbarazzano, non senza che la T. vi sospetti ancora un riflesso che può aver avuto una sua stessa implicita propensione a minimizzare la gravità delle provocazioni anali più o meno immaginarie. Le porta un sogno in cui è in situazione di intimità con la suocera morta madre della prima moglie oppure, non gli è chiaro, con quella viva della seconda il che comunque lo eccita e gli provoca un’erezione che continua anche quando si trova a guardare la scena da osservatore e al suo posto c’è il suocero che penetra in terga la donna dalla vaga identità. Ritorna più volte in sedute successive sul sogno accennando a qualche interpretazione, e in una concatenazione gli sovviene un ricordo forse di copertura risalente all’età della latenza, verso i cinque anni: una ilarità, che l’aveva fatto vergognare, quasi compiaciuta da parte congiuntamente di sua madre e di suo padre per un suo peto emesso in circostanze che lo sconsigliavano, una festicciola per l’anniversario di matrimonio dei genitori. La T. compie un azzardo: approfitta di una momentanea tensione intestinale e non reprime un flato percepibile. In bilico tra lettera e significazione analitica. Senza aggiungere un: “scusi”.

 Inutile dire che la significazione in corpore vili dell’”imperfezione” dell’Altro, dopo la necessaria fase della tempesta analitica del silenzio, riuscì invece nel caso riportato a imporsi come accomunante soggettivo (simbolico) nel percorso analitico e che l’uomo si avviò, sia pure attraverso mesi di contorcimenti nel transfert, atti diversivi, fughe e quant’altro, alla soluzione del suo sintomo fobico, a situarlo in nuove parole.  Tutti i sintomi sono effetto di rimozione di un ricordo in nuce, insegna Freud, più precisamente, ed è Lacan a precisarlo, dei significanti in cui un evento si sarebbe potuto rappresentare e memorizzare con la sua portata libidica, che non manca in alcun evento anche minimo nel nostro tempo (corporale) di vita.

 Ci sentiamo autorizzati, anche sulla scorta di uno degli ultimi saggi brevi di Lacan pubblicati negli “Scritti”, intitolato “Scienza e Verità” e concernente anche la magia, a definire l’azzardo della T. un atto sciamanico, quell’atto in cui materia e spirito agiscono sinergicamente.  È difficile arguire quanto di sciamanico si possa concettualmente implicare nella psicanalisi senza per questo delegittimarla definitivamente sul piano epistemologico: lo fece in un frettoloso articolo Claude Levi-Strauss. Ma è certo che lo sciamanesimo sia implicito in ogni operazione soggettiva che presuma di poter causare in quanto tale qualche cambiamento olistico nella physis (dei corpi). C’è da chiedersi cosa si perderà a fronte di qualche guadagno o qualche risparmio quando si deciderà di poter psicanalizzare “in remoto”, cosa che credo prima o poi accadrà.

 Certo, l’antica tendenza alla svalorizzazione, se non sostituzione, di ciò che è concreto, corporeo, materiale, in favore di ciò che è pura rappresentazione, sembra iperbolizzarsi, una sorta di angelizzazione galoppante. Vi ricordate di quando i comunisti, materialisti immaginari, vagheggiavano l’avvento (la costruzione) dell’”Uomo Nuovo”? Era un bel pendant dell’Ubermensch. Entrambi kitsch, perché mortificati nell’estirpazione di qualche seppur infima apertura alla verità scabrosa del difetto primordiale, significanti condannati a non più relazionarsi nel senso, cioè nell’amore.

 Salta agli occhi che la svalorizzazione simbolica del corpo puzzoso, luogo delle malattie, va oggi di pari passo con una sua iper-valorizzazione a livello immaginario, luogo dell’Io ideale, (im)possibile completezza del mondo. Il progetto di una fuga, comunque.

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