Non c’è realismo che nella poesia. Sfiduciare occasionalmente il linguaggio corrente e comune come latore di senso è molto sensato: si darà una mossa, si metterà al lavoro nei territori del non-senso e forse ne verrà fuori un reale godimento invece che un godimento del Reale, quello di cui vorremmo disporre ad libitum nell’equivoco erotico dell’oggetto del piacere, equivoco che per non essere deludente non si sa dove vada a parare.
Scienza del soggetto poetico, invece, nient’altro che un sapere critico sul godimento in rapporto alla voluttà, al riparo dello scontento prima o dopo di esso, è l’oggetto della poesia, godimento essa stessa, tal quale che l’oggetto della psicanalisi nel suo svolgersi al livello del desiderio.
La poesia agita e fa giostrare i significanti dell’incertezza umana nella dimensione della contingenza che è la dimensione del godimento inconscio e così coglie spesso la verità che, sconfinando oltre il senso assegnato all’Io dal soggetto e dall’Io al soggetto, non può consistere nell’identità né per forza in quel bene che si agogna faccia tutt’uno con l’Io stesso.
Agita i significanti come peraltro fa la psicanalisi, un po’ in contrapposizione alla scienza dell’oggetto che, per disconoscere il peccato originale nominalistico, ormai fa giostrare le lettere e le cifre per vedere l’effetto che fa (di sapere, prima, poi, con la tecnologia, vedremo). Ma c’è ancora bisogno dello scienziato, per questo?
Stabiliamo una volta per tutte che dove c’è l’Io non può esserci il godimento. Né la verità.
Nella famosa “Lettera del Veggente” scritta nel 1871, Arthur Rimbaud, diciassettenne quando Freud era quindicenne, esprime icasticamente il punto nodale della psicanalisi freudiana soprattutto per come verrà letto da Lacan: “Je est un autre”.