Il Tempo per Lacan è legato per un verso al flusso di coscienza in cui il passato acquista senso sincopato nel nostro pre-parare il futuro (tempo logico), e per un altro alla sincronicità del Reale come evento onnipresente in quanto annodato in nodo borromeo, cioè ad essere forse esso stesso il Tempo.
L’immaginazione di Lacan, al pari di quella di Heidegger e diversamente, per esempio, da quella di un Jankelevich o di un Adorno, è spaziale ed ottica; perciò, quando l’Arte genericamente intesa diventa tangente alla sua speculazione e, dichiaratamente, la supera in quanto ad euristica ed Aufhebung, sono scarsi i riferimenti alla musica che, si sa, è l’arte più diacronica e meno immaginativa. Vale anche se ci si riferisce a Freud.
Tante sono le incursioni della psicanalisi nell’Arte, in tutte le Arti, pittura, scultura, danza, teatro, poesia, cinema, ma è rara l’interpretazione di una musica in chiave psicanalitica.
Ricordo bene una di queste: trent’anni fa frequentai non assiduamente un seminario lacaniano a Padova condotto da Ettore Perrella che aveva per tema “la significazione e il senso su Mozart”; il seminario si imperniò sull’analisi semiotica della partitura del Requiem seguendola passo a passo.
Malgrado l’impegno eroico del relatore, il suo rigore, verve e ampiezza di vedute culturali, fu un fallimento sul piano euristico che era tuttavia esibito come presente per tutto il percorso.
Al seminario era stato posto un esergo, la definizione della musica di S. Agostino: “Musica est scientia bene movendi”. Sembrerebbe una definizione adatta più ancora per l’arte della danza e quel “bene movendi”, riferito evidentemente all’armonia, strideva un po’ alle mie orecchie per confronto con la natura dionisiaca che Nietzsche attribuisce perentoriamente alla musica, ma in ogni caso la definizione è molto lontana dall’esaurire in sé l’idea di una attitudine significativa, trascendentale, della musica: muoversi bene può restare là senza arrivare all’espressione (creazione di senso in un andirivieni di significanti tra l’l’Io e l’Altro secondo una topologia descrivibile come “otto interno”…), lo dimostra il fatto che il più aggraziato essere umano, ballerino o ballerina, non riuscirà a muoversi “bene” al grado di qualche animale i cui movimenti anzi si sforzerà di imitare. L’esergo non fu travalicato o superato dall’analisi del Requiem al punto di rendere ragione dell’espressione, cioè del discorso su un mysterium tremendum che Mozart cercava in sé stesso e in noi ascoltatori, o di svelarne l’arcano. Del discorso, non del mistero.
Dimostrando così, paradossalmente, ciò che dopo tutto si sarebbe dovuto dimostrare: la superiorità dell’Arte, di qualsiasi Arte vera, rispetto qualsiasi discorso umano mirato, compreso quel Seminario, nel produrre verità e senso com’è proprio di essa, obliquamente, sbagliando mira.
Perché né verità né senso sono effetto di significazione: sono effetto del suo fallimento se non altro tra ricezione ed emissione. Di certo non stanno nella partitura né sono direttamente effetto di essa.
È il sublime che per vie secondarie rispetto il Logos, in una momentanea deviazione dal senso, si fa presente nell’ascoltatore come intervallo di misconoscimento: le parole non dette e non pronunciabili ancora. Nella musica ciò è più evidente che in altre forme d’arte perché quella riduce al minimo la nostra padronanza sul suo tempo fenomenico, la possibilità di uscirne in una prospettiva intervallandolo spazialmente per poter meglio considerare, per poter farsi un’idea delle cose, cioè per meglio addomesticarne “significazione e senso” e imbozzolarne il mistero. È il caso per esempio di quando, sostando di fronte a un quadro, ci chiediamo cosa vuol dire per non correre il rischio di dire noi qualcosa.
Invece, se è vero che non si esce da un concerto con molte parole nuove da dire, di certo si esce più disposti ad esse. In ricezione e in emissione dopo essere stati ammutoliti per il tempo del concerto e per un po’ di tempo anche dopo.