149. L’ANBIGUA SEDUZIONE DELL’OGGETTO

 

 Sgarbi dice che l’arte astratta o informale (due approssimazioni, dato che un’arte non figurativa è impossibile e poche cose sono più formali dell’arte informale), lo annoia. Si può senz’altro essere d’accordo. Una esposizione di 20 opere di Vedova o di Fontana o di Pollock, ma anche del Kandinskij maturo, risulterà inevitabilmente più noiosa di un’esposizione di Bacon, ma meno comprensibilmente, anzi, inspiegabilmente, più noiosa anche di un’esposizione di 20 nature morte di Morandi raffiguranti tutte delle bottiglie. Per dire che si potrebbe associare la noia alla ripetizione, ma non è così, perché non c’è quadro astratto più eguale a un altro di quanto lo sia un Morandi e d’altronde proprio le variazioni su tema riscatterebbero uno spartito debole o monotono.

 Il fatto è che noi, mentre desideriamo abitare in un ambiente che rimanga solidamente lo stesso, siamo sorpresi dal fenomeno artistico come di quell’oggetto che potrebbe essere altro da come è, che partecipi della precarietà del soggetto esposto al Reale come luogo di angosce e godimenti o come luogo del “Presque- rien” e del“Je- ne- sais- quoi”, per dirla con Jankelevic. Perciò, per dirla con Lacan, leggiamo l’illeggibile “Finnegans Wake” per il godimento umbratile che ne traspare quando le parole mostrano la loro vera natura di esserne il veicolo prima ancora che di un senso stabile articolato come discorso.

 L’oggetto, per interessare l’anima, deve essere precario come noi lo siamo, di là di un sembiante (lacaniano, un significato) già dato come congruo nel suo senso tanto da poter essere detto e descritto.  “Stupore e meraviglia” sono ancora possibili fintanto che c’è un po’ di quell’animismo religioso di cui l’arte rappresenta il residuo spazio che resisterà a ogni secolarizzazione e ad ogni smagamento, essendo l’ambito in cui ogni cosa è più che sé stessa.

 Quando Pollock ha licenziato l’opera, essa “è fatta” in tutti i sensi, il suo tempo tra concepimento e presenza è compiuto. Una estetica classica potrebbe dirsi soddisfatta, la vagheggiata congruità tra forma e contenuto si realizza più che mai: troppo forse, perché congruità indiscutibile. Non c’è più alcuno spiraglio tra ciò che è dato in pasto all’occhio e lo stile, una pennellata o un altro segno di lettera, nel quale spiraglio possa inserirsi l’anima estatica, in attesa, quella che nacque in noi a circa un anno d’età tra lettera e significante: invece si tratta di prendere o lasciare! Dall’elaborazione solitaria dell’artista si va dritti a un’eventuale elaborazione altrettanto solitaria, dislocata e differita del pubblico fruitore: intanto non metta lingua, non si immischi! Non c’è l’idea amorosa di condivisione nell’Altro, c’è disincanto. Un quadro di Pollock al massimo induce a parlare di Pollock. La libertà dell’informale resta confinata nello sguardo dell’artista, che ci invita sì perentoriamente all’interpretazione, ma non ci elargisce quella distanza dal suo godimento/significazione che ci permetta di porci come artisti, al massimo ci spinge ad immedesimarci o avere fede in altri agenti nel sistema dell’arte, collezionisti, opinione pubblica, critici o mercanti. Residuali sacerdoti abilitati a dialogare con il simulacro della divinità nel presbiterio o dietro l’iconostasi.

 L’oggetto fascinoso, che non annoi dopo il primo momento appercettivo è sempre straniante e animistico, non realisticamente ideologico come ciò che non può essere altro da ciò che è in quanto è stato. L’arte-della-nostra-epoca è quasi sempre un atto di manierismo concettuale che illustra e messaggia senza titubanze lo Zeitgeist moderno delle contraddizioni incomposte, sia nella sospensione antidealistica dell’arte informale, sia nello spirito di un manifesto, come avviene nel verismo allusivo/didascalico di un Banskj, ma anche nell’espressionismo radicale di un Basquiat.

 Per caso ho qui davanti una riproduzione di una delle Annunciazioni del Beato Angelico: ogni dettaglio mi appare come discutibile, cioè voluto (agito) con precisione eppure motivato del tutto misteriosamente; il che non significa casualmente ma neanche che sia simbolico/didascalico alla maniera medievale.

 I tiranti tra gli archi, che non appaiono in tutte le versioni; l’unica finestrella; perché non c’è possibilità di chiudere la porta? Perché quei colori delle penne nelle ali dell’angelo, perché due capitelli sono ionici e gli altri corinzi? La staccionata identica, buon dio, identica, a quella che divide il mio giardino da quello dei vicini! Perché la maniera scomoda di stare seduta della Madonna, come mia moglie, sull’orlo dello sgabello? Incongruità della magia.

 Perché in ogni quadro di Hopper leggiamo rapiti un racconto da film? Ecco il mistero: perché lui non lo vuole. L’ha detto, disse che esponeva i suoi oggetti, case, uomini e donne alla luce solo per vedere della luce l’effetto. Non pretende di andare dritto alla Cosa, si accontenta di essere il soggetto estatico per l’oggetto occasionale.

 Per tornare a Morandi, il perturbante (uso qui l’aggettivo sostantivato con cui è stata tradotta la parola tedesca Unheimlich usata da Freud per nominare una strana coincidenza di consueto e insolito), ciò che dalle sue bottiglie passa al soggetto contemplante rendendolo per un momento muto e pensieroso, non è l’essere in bilico tra ciò che è necessario e ciò che è fortuito, libero, nella luce della visione, il che resterebbe comunque un fattore basilare nell’arte, anche astratta, ma l’essere in bilico delle bottiglie tra sé e altro da sé in quanto bottiglie. È là lo sforzo di rappresentare il soggetto che, i sogni ci insegnano, può essere, di là dell’Io, ogni cosa, ogni oggetto. Com’è possibile che in quattro pennellate tonali appaia nel più umile oggetto d’uso la perfezione impossibile e l’impossibilità della perfezione? Perché quelle bottiglie possiamo essere noi in una anamorfosi onirica e perché la verità è sempre un’altra cosa. Da lasciarci interdetti. Che la verità appaia nell’arte ex ante nella prima fase della contemplazione come silenzio e solo ex post come parole, l’ha scritto Herbert Marcuse nel suo famoso saggio “One Dimensional Man” che non tratta di estetica.

 Rendiamo omaggio a Derrida: è la differance a essere dipinta nelle bottiglie di Morandi. Rendiamo omaggio anche a Kundera: etica ed estetica almeno in un punto dovrebbero andare assieme, nel non tollerare la stupida fede nella perfezione fasulla, il Kitsch, “la vita senza la merda”.

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