Il sentimento della pietà empatica inattiva, la cosiddetta compassione, decisamente proiettiva-introiettiva per la psicanalisi e tanto diversa dalla “pietas” istituzionalizzata per Virgilio come legame sociale, nasconde, nel momento puramente contemplativo, una propensione un po’ vile ad esorcizzare qualche punizione che potrebbe caderci addosso come effetto di qualche colpa e insieme la vergogna mista a sollievo per esserle momentaneamente sfuggiti.
E’ un motivo che è difficile dire quanto rimanga inconscio. Esorcismo per mezzo dell’altro al cospetto dell’Altro che deve prenderne buona nota.
“Siamo sotto le saette di Giove, è toccata a te, toccherà a me, ma intanto il vecchiaccio ne ha una di meno…” In fondo la compassione è un’estensione più generale dell’elaborazione del lutto per un verso e del sacrificio del capro espiatorio per un altro, due rituali tra i più fondanti per l’antropologia. E’ lui, Giobbe ad essere punito (e forse a godere nell’espiare, finalmente). “Ah, come gli sono vicino! ma che ci posso fare?”. E il defunto? “Furbo lui, si è tratto d’impiccio, ha cancellato il debito”.
Che bei stacchi musicali tra inconscio e coscienza, assicura invece quel sottile sentimento che i tedeschi chiamano con meravigliosa parola “Schadenfroh”, che della compassione mostra il rovescio. Gioia per i guai altrui, ma, resta sottinteso, guai di portata non eccessiva.
Il padre di un mio caro amico ebreo gli raccomandava di rispondere sempre con un mesto “si tira avanti…” alla domanda “come stai?”, affermando, prendendosi blandamente in giro in quanto Ebreo con il ricorrere a sciocchi stereotipi, che è sempre più economico risvegliare nel prossimo un po’ di Schadenfroh piuttosto che di Lebensneid. Tradotto: sempre meglio avere un piccolo credito che un piccolo debito.
Decisamente promettente gli pareva mettere il prossimo in posizione di lieve debito morale, talché gli raccomandava anche di pagare lui il conto al banco del bar con gli amici; ma poi aggiungeva: “Quando è poco”.