Provo un rammarico speciale, venato di tenerezza e sicuramente sintomatico quando, leggendo o ascoltando qualche persona ancora più anziana di me, presumibilmente con poco tempo innanzi a sé, vedo che ancora si tormenta per rendere ragione, come si diceva nella Scolastica, del cur sit e del quid sit o, più modestamente, che si impegna nel voler spiegare gli aspetti ingarbugliati dell’epoca, quei nodi che andrebbero sciolti per liberare una visione, se non apollinea e pacificante, almeno non troppo caotica e insulsa dell’esistenza.
Ma forse chi è vissuto molto vuole con ogni buon diritto che ne sia valsa e ancora ne valga la pena, cerca il senso come giustificazione.
Mi pare che non abbia nulla a che fare con il votarsi alle cosiddette “cose ultime” di chi vede approssimarsi il momento del distacco. È piuttosto il perdurare del tipico tormento dell’adolescente che si vota ad essere un intellettuale per il desiderio di fare luce su e oltre gli oscuri eventi ormonali che hanno fatto emergere in concretezza la dialettica di Eros e Thanatos. Ne consegue la ri-cerca infinita di quell’Agalma che Alcibiade suppose essere in Socrate e tutti noi supponemmo essere nella nostra madre, per collocarlo poi nell’Altro, il sacro, enigmatico sapere sul godimento o, al caso, in questo caso, sul Reale che infine ci attende.
Tanto per non fare nomi, qualcosa di simile traspare nei variamente filosofici articoli che Eugenio Scalfari scrive da qualche settimana nell’ultima pagina dell’”Espresso”. Certo, tenerezza anche, perché vi traspare la scelta dell’uomo per una causa che, a livello di personale ricerca, è comunque causa di verità, affannosa ricerca di nuove parole. Eros, apertura al possibile, ancora…
Scatta allora il sintomatico rammarico del lettore che si è votato ad una causa già implicata linearmente con una sua dottrina, nel mio caso causa freudiana: quanto assillo (ma anche quanto godimento invidiabile nell’assillo, annotiamolo bene…) sarebbe risparmiato all’autore se avesse toccato con mano in un’analisi la valorizzazione socratica del non sapere nella riedizione che ne fa Lacan fondando la verità sul non-senso del sesso. Non-senso che una analisi lascia intatto (ma che, sia detto qui per inciso, in compenso viene purtroppo esorcizzato nell’immenso commentario lacaniano che ha già superato in quantità tutto quello che si è scritto su quello che Freud ha potuto scrivere).
Ai vecchi, più che ai giovani, non dovrebbe dispiacere toccare con mano che i pensieri “chiari e distinti” sono solo il frutto proibito dell’ambiguità inaggirabile delle care, buone parole, di un’incertezza che resterà nel mondo in qualche modo produttiva, non sicut pulvis quod sumus.
Ludwig Wittgenstein intuì in fondo qualcosa del genere quando, a sessant’anni (morì a sessantadue nel 1951), dovette ricredersi sul senso dell’unica sua opera che coincise con tutta la vita di studioso. L’esito di tale ripensamento quasi in articulo mortis, caso più unico che raro nella storia della filosofia, è raccolto in forma di molti appunti postumi nel cosiddetto “Quaderno Marrone”. Nel 1949 il grande logico, che a molti sembrò essere approdato a uno scetticismo soggettivista, anticipava invece di qualche anno Lacan, nel dimostrare che il linguaggio, lungi da essere un nostro strumento per conoscere e comunicare, conosce e comunica più per suo conto che per conto nostro, laddove la logica si costituisce come limite nel designare o produrre verità.
La vecchiaia è spesso segnata da un’inversione della proporzione tra quanto si legge e quanto si scrive. Ma si scrive sempre ciò che si avrebbe voluto leggere, poi a leggerlo è sempre deludente, invece leggerlo scritto da un altro, non nel passato ma inaspettatamente nel presente, ha l’effetto di un contraccolpo amoroso che vanifica quella morte che è nei pensieri dei vecchi. È un’ottima cosa che non di rado mi accade e mi fa pensare a delle “scintille” gnostiche che rimbalzino tra me, gli altri e l’Altro. Per una volta rimando la mia lettrice a un altro momento di queste meditazioni, a pag. 256, titolo 103.- MORTE.