Dopo che ebbe liquidato il suo transfert nei confronti di Fliess, Freud sentì l’esigenza di potersi appoggiare saldamente, cioè con qualche fondamento libidico, su qualcuno che lo accompagnasse nella campagna di affinamenti e progressi nella teoria della psicanalisi ma anche di strutturazione organizzativa in grado di conquistare spazi nell’ambito psichiatrico e nella società. Aveva saputo suscitare l’interesse di molti aspiranti al ruolo, ma tra tutti scelse Jung e Ferenczi, entrambi stimati psichiatri, per accompagnarlo nella missione evangelizzante negli Stati Uniti. Jung per la sua proverbiale energia, Ferenczi per la sua integrità, entusiasmo e, perché no, bontà d’animo.
Jung imboccò in seguito una sua strada parallela a quella di Freud e di ciò sappiamo tutto, mentre la devozione dell’amico ungherese, mai venuta meno, dovette talvolta costituire per Freud un imbarazzo, pur nella corresponsione più affettuosa sul piano dell’amicizia.
Il percorso più autonomo del pensiero psicanalitico di Ferenczi fu per un verso opposto a quello di Jung e per un altro verso simile: invece di ritrarsi come costui di fronte alla teoria sessuale che fa della perversione polimorfa infantile e della tentazione incestuosa rimossa il centro causale dell’inconscio e dei sintomi, egli la enfatizzò e la attualizzò togliendole quel velo di metafora edipica che la separa dal reale del sintomo nell’adulto e che Freud lasciò sempre al suo posto.
L’amore per il pensiero di Freud impedì a Ferenczi anche di scorgere in Freud quel poco di moralismo inibitorio che tradusse la sessualità genitale di Freud stesso in una idea genitale nella teoria della psicanalisi, in contraddizione con l’aspetto di autoerotismo che aveva scoperto nella pulsione sessuale, tutt’altro che un istinto riproduttivo. Venne facile a Lacan ricordare il termine che usò Ernest Jones per definire lo spazio erotico dell’uomo Freud: “uxorio”.
Forse fu un freno superegoico a impedire agli psicanalisti della prima ora di radicalizzare la teoria sessuale fino al punto di dover decidere che la cultura in toto, di cui pure svelavano la matrice libidica e simbolica, non è altro che supplenza a un “giusto sesso naturale” impossibile o deludente nei fatti; proprio il misconoscimento genitale fece mancare a Freud anche il concetto di godimento come effetto del Reale, concetto non congruo con il “principio del piacere” e di cui intravide solo il rovescio che chiamò Todestrieb, pulsione di morte. Non formalizzò il Simbolico e quindi l’arcano per cui ciò che va bene per l’individuo di solito non va bene per la specie e viceversa. È la ragione per cui la lettura di “Il disagio della civiltà” ci lascia preoccupati per il futuro dell’umanità. Per chiarire le cose si dovette attendere Lacan.
Ferenczi però fece ciò che non deve fare uno scienziato, invece di attenersi al realismo epistemologico volle inoltrarsi sulla via di un realismo ontologico, ovvero, invece di ammettere l’incongruenza di realtà e Reale, vagheggiò di scoprire qualche realtà più reale che facesse da causa o almeno da garante di una realtà meno reale. La stessa via che aveva imboccato il naturalista E. H. Haeckel al quale egli stesso dichiarò di ispirarsi, con il risultato di svilire delle ipotesi, suggestive e fertili per ogni possibile discussione in fatto di morfogenesi, presentandole come tesi argomentata: un mito e un’opera d’arte, dopotutto. Haeckel era stato anche un buon pittore acquarellista.
Il medico ungherese, invece di seguire la sua ispirazione scientifica nel senso metodologico della psicanalisi in cui la clinica e la teoria si possano correggere vicendevolmente, la estremizzò in entrambi i versanti tagliando corto sugli ostacoli che il procedimento induttivo-deduttivo sempre comporta, così passando dalla realtà dei sintomi a una realtà sintomatica. Formulò con una certa baldanza apodittica teorie di traumi (ferite, in greco…) originari e mutazioni organiche più o meno ambigue attraverso le quali ogni organo acquisisce più di una funzione (la sua straordinaria teoria degli “anphimixis”…) ma che egualmente risolvessero ogni dubbio a proposito della centralità della sessualità nei rapporti con le realtà della vita, tanto che ogni aspetto meno che adattivo della nostra vita soggettiva, di relazione, va ascritto a qualcosa che non è filato liscio nel prepararci ad assumere la posizione erotica che la natura filogenetica ci assegna da sempre per sempre: riproduttiva, a scanso di ogni deviazione. Deviazioni tuttavia inevitabili e formative di ciò che è umano: Ferenczi non era un bigotto.
L’assunto mitico di “Thalassa”, il suo saggio più famoso, è presto detto: in epoche antichissime della storia filogenetica dei mammiferi dovremmo ritrovare, in base alla tesi di Haeckel che “l’ontogenesi ricapitoli la filogenesi”, la fase in cui fenotipi primordiali, corrispondenti alle morfologie di esseri anfibi che in diverse fasi di sviluppo assume anche il feto nel liquido amniotico, a seguito di una catastrofe che li obbligò a uscire dalle acque, ebbero come unica via di sopravvivenza quella di ricercare l’umido nel corpo di un altro individuo.
In questa mitica lotta primordiale all’ultima acqua più che all’ultimo sangue, si originerebbe il maschile penetrante, il femminile accogliente, il coito, la fecondazione, la gestazione e la nascita come espulsione dell’esemplare ontogenetico fatto maturo per la vita aerobica.
Viene facile ricordare che lo spermatozoo viene immaginato come un girino, ma viene anche facile ricordare che l’acme dell’eccitazione nel coito dei mammiferi segna un punto di flesso delle usuali manifestazioni verso l’omeostasi, tanto che qualcuno ha potuto parlare dell’orgasmo umano come di una “piccola morte”.
Un mito più suggestivo di molti altri, potrebbe funzionare come motivo ispiratore di ipotesi anche serie intorno al peso di una physis nell’Immaginario, ma intanto funzionò come resistenza in senso opposto alle resistenze di Jung e per lo stesso risultato di affossare la rivoluzione copernicana che Freud voleva consegnare alla Storia dell’umanità futura: un dovere di dialogo interiore che possa sottrarsi all’elucubrazione ossessiva e arrivare ad assumersi la responsabilità di quell’enorme preponderante parte di noi, l’Es insensato, della quale, prima di lui, potevamo negare di essere responsabili. Sulla via di quell’impresa Freud dovette scalare coraggiosamente la montagna della sessualità per avere chiara la visione di come il senso della vita dipenda dalla pulsione sessuale e di come il pensiero si formi intorno alla rimozione di qualche sua rappresentazione, pertanto intorno l’inconscio. Fatto quel passo, forse non ebbe del tutto chiaro, ma certo intuì che il linguaggio, causa di ciò che è umano, è dipeso in qualche modo dalla sessualità e l’inconscio a sua volta dal linguaggio, permettendo la successiva elaborazione di Lacan.
Per Jung la forza ancestrale dei simboli archetipici che ci unifichi nel senso, per Ferenczi la forza ancestrale della biologia sessuale che altrettanto ci unifichi nel senso, furono due bei principi con cui imbrigliare l’inconscio per difendersi dall’angoscia personale di non sapere. Va detto per la clinica che mentre la psicanalisi dovrebbe restare un discorso critico verso ogni sistema logico filosofico che metta a posto le cose in cui sistemare il senso (il sesso…), restare, per così dire, eternamente laica e “antigovernativa”, quei due principi ancestrali rispettivi dei due psichiatri sono ideologie di riferimento, razionalizzazioni mitiche bell’e pronte in cui il sintomo può accomodarsi e prosperare con i migliori alibi accanto al fantasma di un rapporto sessuale che si salvi dal dramma edipico. Disperso e diluito nel caso di Jung tra gli “archetipi” ed ingigantito nel caso di Ferenczi al livello di un mito biologico, ma doverosamente salvato in entrambi i casi come “rapporto” in cui possa ricostituirsi l’Uno che sa (godere): l’eterna illusione in cui prosperano nevrosi e psicosi. Se nell’analisi rimane qualche illusione ontologica, essa si esprime nel “tre”, pacificante due ipotesi antinomiche come sapere altro, mentre quasi sempre, preoccupati come siamo per il “due” (sessuale), vogliamo solo ricostituire in qualche fantasma l’uno-bambino nell’Eden indifferenziato, tanto primordiale quanto ab-soluto. Forse l’Uno anticipe e finale dell’”eterno ritorno dell’uguale” proposto da Nietzsche come un Tutto metafisico che faccia sintesi di “Volontà e Rappresentazione” schopenaueriane.
Mentre, gira e rigira, “ciò che torna sempre allo stesso punto”, approfittiamo per dirlo qui con fermezza, al punto assiomatico dell’inconscio, o è il Reale, tutt’altro che ontologico, o (vel, indecidibile…) è il significante.
Fino a metà degli anni ’60 in Italia di Ferenczi si sapeva quasi nulla, poi fu pubblicato il suo saggio (incredibilmente tradotto dal francese!) con il suggestivo titolo “Thalassa” e tutti lo leggemmo dandogli il credito che meritava, quello che merita un poema, disse qualcuno, ma non facendo caso al titolo originale: “Funzione delle catastrofi nella evoluzione della vita sessuale”.
Ora, pensando al plurale delle catastrofi, qualora si volesse fantasticare alla maniera dello psicanalista ungherese, legittimandosi a trasferire di ritorno la teoria dalla specie all’individuo, sarebbero o no individuabili passaggi di vera e propria rottura attraverso i quali un neonato progredisce da un supposto stato di natura ontogenetico fino alla riflessività in cui può pensarsi come un Io? E, se sì, con quali implicazioni rispetto stadi di trasformazione precedenti? A questa domanda Freud, Klein in maniera grandiosa, Winnicott, ma anche tanti altri psicanalisti di grande spessore intellettuale, hanno dato le risposte che sappiamo o dovremmo sapere, ma senza mai venir meno a una certa gradualità che escluda soluzioni di continuità, catastrofi appunto, attenendosi sempre a una storia di progressiva maturazione dell’individuo, tradizionale in psicologia. Solo Lacan ebbe il coraggio di dirsi “creazionista” a proposito dell’irruzione del linguaggio simbolico nella genealogia umana, una faccenda poco riconducibile ad una biologia che si accordi, con la continuità della biologia, a stadi evolutivi, per consegnare l’essere umano alla sincronia della struttura simbolica, lasciando immaginare in quell’irruzione di un linguaggio inedito, simbolico, un evento enigmatico in una diacronia enigmatica, una cesura evolutiva non senza relazione con i miti archeo-antropologici che Freud aveva tratteggiato in “Totem e tabù” e in “Mosè e il monoteismo”.
Sotto questo riguardo Ferenczi è ancora più propenso a visioni drammatiche ma, come Otto Rank, liquida ogni possibile aspetto catastrofico nella trasformazione del soggetto umano facendo riferimento al trauma della nascita, tuttavia trasferendolo dalla storia dell’individuo a quella della specie. Veramente, a parte il fantasioso biologismo di “Thalassa”, da Rank (e da Jung) lo allontana anche la tendenza a voler individuare nella storia dello sviluppo psichico morboso dei suoi pazienti, prima che la fase fallica defluisca con il tramonto edipico in quella di latenza (sto usando concetti strettamente freudiani), qualche episodio traumatico di natura schiettamente sessuale rimosso ed imputabile a qualche malinteso nel rapporto con chi lo alleva o addirittura a qualche “oggettivo” evento di seduzione ed abuso da parte di questi.
Forse Ferenczi avrebbe dovuto fantasticare oltre e meglio sull’onda di “Thalassa”, sì intorno a metafore “haeckeliane”, ma che individuino, riconoscendole come null’altro che metafore, qualche ipotetica relazione tra l’evoluzione psichica dell’individuo e l’evoluzione culturale specie-specifica. Penso ad ipotesi anche molto azzardate, anch’esse poco meno che deliranti, tipo che la comunicazione tra mamma e bambino in quella lallazione che è preclusa all’altrui comprensione, possa alludere a qualche linguaggio segreto che le madri di un’orda nomade nella notte dei tempi, l’orda immaginata da Freud, abbiano inventato per meglio mettere un cantuccio di mondo al riparo dalla foia del maschio.
Non so cosa avrebbe potuto arguire a proposito dell’origine e del contraccolpo del linguaggio simbolico in questa evoluzione, questo lo lascio fantasticare con un po’ di trepidazione alla mia attuale unica lettrice che so edotta del pensiero di Lacan… Ma forse il buon dottor Ferenczi si sarebbe risparmiato il dolore delle ultime lettere a Freud (e delle risposte che gli arrivavano soprattutto indirettamente) e della stesura accorata del “Diario clinico”, pubblicazioni postume entrambe.