Una delle più conosciute metafore freudiane è quella che illustra la somiglianza tra il procedimento della psicanalisi e quello dell’archeologia pratica, sul campo: come un archeologo scava nel terreno sotto le apparenze di superficie alla ricerca dei resti sepolti di antiche civiltà così l’analizzante è chiamato a scavare nella memoria stratificata di misconoscimenti e rimozioni fino ad arrivare allo strato in cui un trauma si riveste ancora di quanta emozione (Affekt) basta per riprodursi come sintomo. Sepolto: da una metafora all’altra, “rimosso” dai sentieri su cui potrebbe essere rincontrato.
C’è una differenza: lo psicanalista non sa se non inconsciamente, come d’altronde l’analizzante, dove andare a scavare e cosa può trovare, salvo poter correggere il lavoro in base a piccole conferme, piccoli reperti significanti; se presumesse o mostrasse di saperlo, come psicanalista sarebbe fritto, avrebbe sabotato il suo lavoro che è paradossalmente a tutto campo, mentre l’archeologo deve sapere bene dove indirizzare la sua ricerca per portare alla luce nello scavo ciò che arguisce possa esservi.
Può sembrare strano, ma la necessaria assenza di pregiudizio mette l’analista al riparo da errori, tanto che, come Picasso, potrà dire: “io non cerco, trovo”: di più, trattandosi in psicanalisi di verità plurali, probabilmente saranno continuamente trovate.
Lo stesso non può certo dire un archeologo che talvolta, per la propensione di ogni essere umano a difendere i propri investimenti nell’immaginario, congetture, ipotesi, tesi, fedi e superstizioni, non solo può cadere in errore, ma fare di tutto per non ammetterlo. È stato il caso dei grandi archeologi romantici, più o meno dilettanti ma sempre rabdomanti magici come Schliemann ed Evans, per citare i due più famosi.
Schliemann è stato, come sappiamo, un personaggio da romanzo, un eccentrico avventuriero che si identificò anima e corpo al suo desiderio “omerico” un po’ maniacale, tanto da lasciar perdere il senso critico e quel gentile e utilissimo sentimento che si chiama “orrore di sé stessi”. Poliglotta, strozzino, contrabbandiere, come archeologo ebbe più fortuna che giudizio.
Diverso il caso di Sir Arthur Evans e della sua interpretazione di una civiltà egemone nel mare Mediterraneo nella prima metà del II millennio a.C., civiltà dedotta nelle sue forme da ciò che aveva disseppellito a Cnosso e che chiamò romanticamente “minoica” riferendosi alla figura mitica di Minosse, re di Creta, figlio di Giove ed Europa, marito di Pasifae, padre di Arianna e con ogni probabilità mai esistito.
Evans ebbe meriti e demeriti, tra i meriti quello di avere dimostrato una volta di più che la Storia della cultura umana non è lineare e che grandi fioriture possono alternarsi con buie epoche “medievali”, tra i demeriti quello di aver ceduto alla sua immaginazione nello spaventoso restauro o, meglio, nell’allestimento in stile disneiano del sito portato alla luce, nonché quello di aver datato frettolosamente e, dato il suo indubbio carisma, definitivamente, i più importanti reperti usciti dai suoi scavi. L’archeologia minoica oggi data ogni reperto secondo un suo schema ipotetico.
Archeologo e numismatico, direttore ad Oxford di uno dei più antichi musei pubblici del mondo, Evans sapeva dove e perché andare a scavare, “sapeva il fatto suo”. Troppo, se fosse stato uno psicanalista nella metafora freudiana, troppo anche come archeologo, tanto da avere spesso permesso all’immaginario, registro ipotetico, di prevalere sul simbolico che è il registro tetico della scienza moderna. D’altra parte, in termini generali, fu effettivamente un buon analista della caterva di sigilli ripartitivi dei beni di sussistenza che uscivano dagli scavi e di cui conosceva già da prima molti esemplari; sigilli che, ridotti alla loro logica, confermarono il carattere nettamente matrilineare di una civiltà di cui nulla si era saputo fino allora, carattere arguibile anche da altri aspetti oggettivi, fuori dai miti classici, eppure in qualche modo riconducibile ad essi.
Evans era uno scienziato e convenne su una eccezionale presenza femminile negli scambi sociali soprattutto nel periodo d’oro che va dal 2.000 al 1.500 a.C., rapportato alla cronologia egizia che è l’unica che si conosca con certezza per l’età del bronzo. Ma si ritrasse di fronte ad altre evidenze su cui si poteva ipotizzare una ginecocrazia di tipo economico e religioso.
In tutta l’iconografia, affreschi, statuette fittili e fayence, sbalzi, monili, tavolette, sigilli, decorazioni in figuline, la presenza della figura femminile compare in media 80 volte su 100! Le donne partecipano ai giochi più dinamici e pericolosi assieme agli uomini. Le divinità raffigurate sono femminili. La manifattura artigianale è dedicata ad usi pratici condivisibili nei due sessi. È assente la figura dell’uomo forte, fallico, tipo Ercole, figurazione peraltro non ancora presente neanche in epoca micenea: la bellezza mascolina è efebica. Sono quasi del tutto assenti nel periodo di splendore palaziale, pre-miceneo, pesanti armi d’offesa di manifattura locale: in poche raffigurazioni spadini da stocco e mai pesanti spade da fendente. Le donne presidiano il territorio con la loro presenza diffusa mentre gli uomini sono imbarcati in spedizioni che portano le merci cretesi in tutto il Mediterraneo, consentendo di immaginare una sorta di talassocrazia cui ponesse fine una immane catastrofe, l’esplosione vulcanica di Thera, e che ispirasse a Platone il mito di Atlantide. La stratificazione elitaria della società, per come appare deducibile dai corredi funerari, riguarda un prestigio simbolico più che un potere costituito. Omaggiata nei rituali è sempre una figura femminile: quando i rituali stessi non riguardano onoranze a qualche sacerdotessa o devozioni votive a una dea, le scene raffigurate riguardano nella quasi totalità occasioni festive con al centro le donne. L’ascia bipenne (labrys, da cui forse “labyrinthos”) onnipresente, non ha, per come si presenta, funzione pratica adatta a braccia maschili data l’esilità del manico in rapporto alle penne bronzee larghe ma piatte; non è molto funzionale come accetta o scure, ma non appare mai in esplicita funzione sacrificale: bisogna ammettere per essa una funzione simbolica ancora misteriosa riferibile a miti fondativi o tabù. La raffigurazione del toro è nella generalità più realistica che totemica e potrebbe riguardare simbolicamente una fecondazione anonima delle donne in linea con la matrilinearità della stirpe. Il simbolo sacro più evidente è il serpente, ctonio e tellurico, da sempre retaggio femminile nell’antichissimo mito della Pizia delfina, opposto poi a Delfi al mito solare di Apollo, come individuato da Kerenyi: simbolo di un’umbratile libido femminile? La narrazione figurale della natura prevale su ogni altra narrazione iconografica, per esempio eroica. La scrittura “A- lineare”, sillabica, comincia e finisce nel periodo di quei 500 anni e, pur non essendo decrittata, sembra riguardare esclusivamente il controllo sulle pratiche di sussistenza e non genericamente giuridiche e pertanto del potere. La diffusione di ricchi nuclei abitativi lontani dal palazzo, peraltro non difeso da mura e permeabile agli scambi, fa pensare a una centralità di accumulo e distribuzione ma non di signoraggio. Serve altro?
Pare che queste donne stessero un po’ tra loro, ma una donna senza uomini che l’assillino, è più credibile o immaginabile come madre che come donna. Sir Arthur Evans era omosessuale e per lui tutti potevano godere, ma non la madre o una madre: è così, non c’è niente di male, tutti godiamo a modo nostro e, non c’è neanche niente di strano, sempre qualcuno desidera che qualcun altro non goda a modo suo.
Bisognava, in quel mondo che appariva vago, inquietante, per certi versi sbalorditivo, mettere assolutamente a capo un re, un padre, principio d’ordine per il godimento e allo stesso tempo in grado di dare al godimento la stura trasgressiva. C’è qualcosa di meglio di una riedizione dell’”Urvater” dei miti freudiani, auto-legittimato a “godere di tutte le donne”? C’è qualcuno più adatto del buon Minosse per prenderne il posto e il ruolo? Con le sue disgrazie, si badi, tradito dalla moglie, condannato per ragioni di decoro a custodire il Minotauro, beffato da Teseo, l’eroe più svagato che la mitologia poté immaginare, e anche da Dedalo, l’uomo della tecnica.
Ecco allora il perfetto simmetrico allestimento della cosiddetta “sala del trono” nel palazzo di Cnosso, ecco il dubbio trono (l’architetto chiamato da Berlusconi per arredare la sala riunioni a Villa Certosa lo riprodusse stilizzato in 24 sedie), cose ben meno rimarchevoli dell’avere suscitato inconsapevolmente più di uno spunto per poter interpretare correttamente, cioè nella loro allusività simbolica, i miti minoici raccolti ed elaborati fin dall’epoca di Omero, in una tradizione che passa per Tucidide, Virgilio, Pausania, fino a Dante.
Minotauro è il figlio al quale una madre non può o non vuole trasferire il nome del padre, e Minosse è un padre che non ci sta, costi quel che costi in fatto di reputazione. In ciò, antropologicamente (e paradossalmente) più miceneo che minoico. Mi pare, cioè, evidente che si tratta di fantasie di copertura di un trauma avvenuto fuori memoria ed annali, di cui sappiamo poco o nulla e che non è stato ben digerito con tutto il sovrapporsi dei patriarcali significati micenei su quelli “minoici”. Non bisognerebbe mai dimenticare la natura sincronica dei miti che in questo assomigliano ai sogni e ai sintomi, sempre una riedizione non ordinale di un primo trauma sessuale: Minosse, suggerirei, è probabilmente il re della fine del regno talassocratico più che dell’inizio, così che da un lato si salvi la metafora un po’ invecchiata della psicanalisi come archeologia, e dall’altro non si incentivino interpretazioni edulcorate, ”anna-freudiane”, da parte di uno psico-archeologo o antropologo che sia. Magari con la beneducata fanciulla Nausicaa a sostituire Europa, l’acrobata!
Sto scrivendo seduto al tavolino di un kafenion a Ierapetra e riflettevo su quello che mi ha detto un monaco questa mattina. Accanto a una grotta sulle pendici del Lasithi la pioggia, siamo in dicembre, ha scavato un solco facendo affiorare un cospicuo frammento fittile con del nero visibile sul lato convesso, avrei potuto estrarlo anche con le mani, senza alcuna vanga, ma me ne guardai bene in ossequio alla legge. Tornato all’auto che avevo parcheggiata al monastero, padre Georgios ne fu compiaciuto: “Perché scoprire ciò che Dio ha coperto di terra?”. Va bene, ma la pioggia?