Le mie amiche rivoluzionarie fanno malissimo a diffidare delle “quote rosa” come di una ambigua elargizione maschile e di proporsi viceversa una palingenesi sociale e politica, inevitabilmente qualche peregrina controcultura femminile alternativa alla cultura fallocentrica, non disponendo ad ora di altro linguaggio che quello della cultura in cui il destino di Pentesilea è già segnato. Invece che all’eroina mitologica, non sarà meglio guardare ad eroine comiche del genere di Prassagora o Lisistrata? Prima di giocare a ruba-bandiera o a nascondino con il significante primo, il Fallo, vedano se ne vale la pena. Non converrà loro piuttosto provare a sparigliare? Dico, per il momento, in attesa di momenti più propizi per la loro rivoluzione, se è il caso che avvenga.
In tutti i casi, il gioco proposto di cambiare l’ultima vocale delle parole con una lettera convenzionale per renderle di genere neutro, intermedio o onnicomprensivo, non andrà al di là del gioco se, per esempio, non si trova il modo di indicare nel lessema in italiano il sesso maschile di una tigre o una pantera o di trovare un accordo tra lingue romanze e germaniche sui generi contrapposti ed invertiti del sole e della luna.
Lascino i simboli come sono per quello che sono, e piuttosto reclamino dalla posizione di “povere donne” un travaso di potere meno ideale e quanto più possibile reale, di posizione, sfacciatamente risarcitorio di ciò che nella Storia hanno dovuto subire nella concretezza del tempo della guerra e del denaro.
Eviteranno di trasformarsi in “uomine” con la fatale fregatura di cui dovranno prendere atto al momento di tirare le somme di dare e avere tra i “significati”: al momento sembra si tratti di un consuntivo meno conveniente di quello della cocotte che almeno non si condanna a fatiche duplici o triplici in relazione al genere.
Quale mai Eden di pacificazione può derivare dall’essere riuscite le donne a farsi Uno?
La radicale rivendicazione puramente giuridica economica può significare un cambiar gioco entro le stesse sue regole di struttura, linguistiche, e comunque si pone come un discorso un po’ a lato della realtà, cioè della parvenza, sulla via di qualche sua verità, per esempio la portata del desiderio e del dono, come intuito da Mauss, in economia: forse è il massimo cui si può arrivare nella dimensione dei significati e perciò dei legami sociali in quanto a “slancio verso un po’ di reale”.
E’ l’esito verso cui Lacan vuole, come dice, accompagnare i suoi analizzanti, e non importa quanto poi ci sia di Reale (dell’inconscio), ma che sia forte e perdurante lo slancio. A questo fa riferimento Žižek quando raccomanda al rivoluzionario di non sottilizzare intellettualmente sull’atto per paura della sua spontaneità, se, in termini marxiani, vuole andare alla struttura e non fermarsi alla sovrastruttura. A un certo punto bisogna tagliar corto con le cause elucubrate fuori di noi e partire dai loro effetti che sono già in noi. L’etica non sta nella conoscenza delle conseguenze dell’atto.
Lenin ancora credeva in una realtà naturale che faccia da noumeno per il fenomeno appercepito, una ragione nei fatti alla quale le parole prima o poi si sarebbero inchinate, piegate dalla sua eloquenza; è Stalin che decide bruscamente: “il linguaggio non è sovrastruttura”: non è effetto di necessità naturale né di necessità economica, ma non è che perciò sia il linguaggio a muovere la Storia invece dell’economia, è che ciò che muove il linguaggio muove l’economia. E’ il desiderio, ma nel primo caso agisce nei significanti, e “hai voglia”, sembra dire Stalin, nel secondo nei significati, in cui si va più per le spicce.
Una delle cose più certe al mondo, dopo aver accettato la natura linguistica di ogni cultura, è che una lingua non si può cambiare dall’esterno, per questo il politically correct si presta così bene alle barzellette. Per questo da più di un secolo langue senza speranza l’esperanto. Ben prima che dalle femministe italiane i generi possano essere giostrati nel paradigma, la lingua italiana diventerà un “italenglish” in cui il genere grammaticale perderà un po’ funzione: già mie amiche calciatrici nello sport del pallone, forse imbarazzate tra definire portiera o portiere quella che sta in porta, sono passate a dire keeper. Ma intanto prendono a calci il pallone, un significato.
Non è escluso che qualche civilizzazione al femminile possa germinare prima o poi. E’ anche augurabile, atteso che le cose funzionano meglio con le donne a gestirle, come alcune serie ricerche in sociologia ed econometria hanno dimostrato. Ciò potrebbe avvenire a seguito di qualche catastrofe ancora inimmaginabile che, chissà, potrebbe comportare la caduta di un Impero culturalmente anglosassone che fa tutt’uno con il globalismo e il capitalismo, descritto, per esempio, da Michael Hardt e Toni Negri.
Ma a questo proposito non si può non notare che nel volontarismo rivoluzionario di Žižek l’antistoricismo tipicamente lacaniano può offuscare una visione del femminile specularmente a un certo fideismo storicista che ritroviamo nel marxismo dello stesso Toni Negri.
Anche nulla di promettente su questo versante pare esserci nella crescente e debordante potenza economica della Cina, nazione in cui i ruoli di genere appaiono strutturati rigidamente nella tradizione dietro la facciata unisex del sistema produttivo industriale: la proporzione di donne elette nel Comitato centrale del Partito comunista cinese, nel Politburo o nelle circoscrizioni regionali è circa del 5% e tende semmai a diminuire. Questo indipendentemente da fattori linguistici su cui discutere, dato che in cinese ci sono i suffissi e non le declinazioni per determinare il genere.