Edward Hopper si servì sempre della moglie Jo come modella dipingendola con realismo e spesso con riconoscibilità in inquadrature centrali, campo medio totale, nel contesto di uno spezzone cinematografico con tanto di ambientazione scenografica e script di base più o meno inconsciamente sotteso alle immagini: tutta la sua opera d’altronde è un unico film (o un unico sogno), di cui però la moglie non può dirsi la protagonista assoluta tra altre figure femminili.
Dalla biografia dell’artista, tanto lineare nell’apparenza quanto intimamente tormentata per il peso di un rapporto troppo stretto con la madre, emerge, quando la si confronti con l’opera, un fantasma al quale si possono ricondurre tutti e i più vari sintomi nevrotici di uomini e donne, una costante che li attraversa: l’idea che esista La Donna.
Lei, quella che sa vivere, ovvero quella che sa cosa fare della mancanza.
Però la Donna di Hopper non è quella Jo che può leggere un libro di primo mattino seduta nuda nella stanza in cui ci troviamo, ma quella che si intravvede di spalle, spiata con qualche difficoltà da un esterno buio nel vano illuminato di una finestra, oppure quella assorta in disparte e in penombra, che guardiamo in tralice distogliendo per un momento lo sguardo da ciò che dovremmo guardare per la logica della circostanza. Oppure quella conosciuta solo “di vista”, nelle fattezze e non nel nome, una di cui non si saprà nulla di là dell’aspetto iconico. Oppure infine quella che potrebbe esserci nella stanza accanto, dove non entra che un riflesso della spaventosa chiarità mattutina: la luce che può disvelare una sua singolarità atipica non le si addice. E’ addirittura possibile, nei personaggi femminili dipinti da Hopper distinguere due categorie, quella delle donne, tra le quali c’è Jo, e quella della Donna in cui l’”eterno femminino” archetipico prevale sulla fisionomia prototipica.