40. GARANTI E GARANZIE

 C’è una diffusa illusione che non finirà facilmente e forse non finirà mai, quella per cui ci si attende che l’Altro, il Grande altro o un Altro dell’Altro ci garantisca che le cose possano infine avere il significato che inseguiamo nel nominarle. Difficile rassegnarsi alla barra saussuriana che separa i significati dal significante. Difficile rassegnarsi all’ineluttabile apparenza delle cose, dei sembianti in quanto sembianti, soprattutto di quelli nobilitati dalla funzione di “punto di capitone” in cui la stoffa dei significanti sembra impunturarsi bene con la stoffa dei significati, per esempio nel caso del Nome (del padre soprattutto) o anche di quei paroloni per lo più astratti che Lacan chiama “signifiant maitre” e che sembrano spiegarsi da sé con un senso a priori rispetto non  a un significato ma ad ogni significato.

 Non che manchi del tutto un qualche puntello per il senso: l’”olofrase” che il bambino di un anno adotta per rapportarsi all’adulto è il migliore esempio di questo, la barra saussuriana tra il significante e l’oggetto o l’evento immaginato/significato vi sembra venir meno; ma, tenendo conto della natura riflessiva che Lacan stabilisce per ogni messaggio umano, se non si tratta in questo particolare caso del sottinteso rovesciato di qualcosa che l’Altro ci dica, un significato possibile, si tratta del segno dell’Altro tal quale, dell’ultima e unica sua qualità d’essere nel litorale tra la realtà e il Reale. Un fatto di fiducia pura nella pura possibilità del senso, che si possa andare cioè verso l’evento giusto. Meglio, che lo si lasci essere senza la pretesa di conoscerlo per filo e per segno tanto da poterlo giostrare ad libitum.

 A questo evento corporeo misterioso nella sua continuità atemporale, Lacan dà un nome: jouissance. Un puntello che resiste virtuale nella res publica del linguaggio anche quando si faccia l’esperimento un po’ psicotico e molto rivoluzionario di togliere di mezzo il Nome del Padre e il Fallo, i due principi simbolici ovvero i due principi dati del senso compiuto. Principi di fede? Di sicuro supplenze al non sapere e alla mancanza di un oggetto ultimo che ci innervosiscono.

 Di tappi per tappare il buco simbolico ce ne sarebbero tanti, per esempio l’”iperuranio”, il “noumeno”, La Donna, la morte, Dio, l’imperatore, il corpo e l’anima, il bene e il male e chissà quanti altri, ma tutte figurazioni dell’Altro il quale, se anche le avessimo tolte tutte, rimarrebbe nel “litorale” eroso da parole vecchie e nuove; e non è affatto consigliabile girargli le spalle come fa Narciso. Questi, desiderando vedere sé e stesso, vedrà l’Io della morte, non il soggetto della vita. Ma neanche, nell’impeto di dirigersi verso l’Altro, conviene perdere sé stessi in un delirio come, per esempio, quello scritto nelle “Enneadi” di Plotino.

 Non c’è rapporto tra l’Altro, apertura simbolica, e il godimento, ben consistente effetto del Reale, qualunque cosa sia, ma se l’Altro non può dirci nulla sul Reale, può dirci qualcosa su quell’effetto senza che rimanga retaggio dell’immaginario.

 I rimedi umani alla nostra solitudine (l’Altro non existe fuori di noi ovvero fuori del Simbolico…), ridotti in sostanza a capire la situazione, altro concretamente non fanno che rappresentarla nello sfumato in cui senso e non senso si compenetrano come si compenetrano terra e mare nel paesaggio che fa da sfondo alla comparsa del cavaliere e dello scudiero nella prima inquadratura del film “Il Settimo Sigillo”. La visione del risveglio.

 In quanto a concretezza, l’Altro, effetto del significante al pari del soggetto, non fa eccezione, ma se, come dice J. A. Miller, il mondo dei sembianti e dei fantasmi, figurazioni appunto di altro che noi, risponde all’esercizio di “porre qualcosa dove non c’è niente”, l’Altro resta a far quantomeno segno di un limite. Inconsistente? Si, perché aperto a mostrare un litorale, non un confine, ma non più aperto che il soggetto, data quella negoziazione più o meno inconscia con il Reale che Lacan riconduce al godimento, e non alla stregua del fantasma identificato nell’analista, che invece, come ogni fantasma, resterebbe un diaframma tra noi e la realtà, tra noi e la verità scabrosa che non c’è una Verità né un godimento buono in sé.

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