Al di qua del suo eccesso umano e perciò “innaturale” individuato da Lacan come “plus-godere”, il godimento dovrebbe sempre essere un leggero, inafferrabile tocco di Reale. Da vivere come passivo, inopinato e inassaporabile flusso, sfugge lasciandoci le spoglie illusorie del piacere ad ogni nostro accenno di far presa su di esso non che di scrutarne le sembianze.
Siamo abituati ad interrogare l’Altro su ogni nostro inappagamento, l’Altro nella sua fantasmagorica galleria di personificazioni e simulacri immaginari: tra tanti, c’è anche il nostro corpo.
Il corpo dice ritorni, flussi, battiti, pulsazioni, non si presta ad essere il feticcio che possa fare da tappo alla mancanza, cioè di quel buco che è l’Altro nel Simbolico. Pur essendo il nostro Reale accanto all’inconscio, il corpo resta una delle figurazioni dell’Altro che bisognerebbe ascoltare preliminarmente; non, per esempio, nel sintomo ipocondriaco, nella tensione fallica o in qualche scarica intercalata, semmai quando le cose funzionano e fluiscono niente male.
Va bene essere alloplastici, attivi per cambiare le cose in altre che ci garbano di più, può essere un aspetto del carattere, ma sul “litorale”, di fronte al Reale e all’Altro, conviene un po’ di passività o almeno ammettere una dissimmetria, una incongruenza fondamentale nella nostra vita: quella sospensione (libidica…) di fronte a ciò che si può o non si può sapere e potere, la sospensione che troviamo riprodotta nella pratica psicanalitica tra il dire e l’ascoltare senza il senso della direzione prestabilita. Ne sanno qualcosa anche le mistiche e i mistici che, volendo far parlare solo lo spirito, riescono a far parlare solo il corpo. Vogliono troppo.
Nella sua natura omeostatica il principio di piacere freudiano è anche principio di dispiacere, mentre il godimento si sottrae a questa contabilità a saldo zero, fluisce continuamente in fatti di corpo e di parola del cui equilibrio si sa poco, sempre che non si proceda a voler conoscere e riscuotere saldi parziali. È una metafora, ma in una simile attitudine contabile si rivela il chiasmo di plus-godere ripetitivo e di istinto di stasi più o meno felice: di morte, in altre parole.
Una definizione di plus-godere: il godimento saputo, non più inconscio, adatto al sapere che non sa del limite. Darsi troppo da fare per conoscere il proprio godimento per filo e per segno allo scopo di poterlo riprodurre è sicuramente non economico ancor prima che impossibile, dato che, al massimo, se ne trarrà un piacere a corrispettivo esatto, non di più, di quel lavorio. C’è un pericolo, quello di intestardirsi per uscire dalla futilità dell’esercizio: la ripetizione freudiana in cui si scarica continuamente il troppo della vita detto anche Todestrieb.
Un “fumatore infelice” di mia conoscenza, tipo lo Zeno di Italo Svevo, ha messo una volta nero su bianco, tra qualche seduta psicanalitica, una specie di compito per casa, i motivi, gli stati d’animo e le occasioni che di volta in volta lo spingevano ad accendere una sigaretta. Il catalogo che ne derivò dimostrava chiaramente la sovradeterminazione più o meno inconscia di quel suo vizio come di ogni vizio e, al minimo, di ogni ripetizione abitudinaria e automatica, ma la deduzione più illuminante fu che si fuma quando le cose vanno troppo bene, quando vanno troppo male e quando, annoiati perché non è un caso né l’altro, ci si attende con trepidazione che l’uno o l’altro caso si presenti.
Mi perdonino i filosofi metafisici un po’ di umorismo: se Parmenide fosse stato quel fumatore, avrebbe ben potuto obiettare qualcosa alla sua Dea che non voleva consentirgli di pensare che qualcosa che non c’è possa esserci come attesa. Sappiamo che gli antichi Greci fumavano, seppure non sappiamo cosa fumassero: Erodoto attribuisce il vizio di inalare cose diverse dall’aria pura ai Persiani ma è una vecchia storia, talché i Greci moderni fumano “come Turchi”… Immagino allora che Eraclito abbia sperimentato la situazione esistenziale del “fumatore infelice” di mia conoscenza, per decidere di aprire l’Essere al Tempo.