Nell’epoca della modernità, in cui il desiderio universale è dettato dalla ragione capitalista tra tecnologia e consumi, la forma di governo democratica da qualche decennio appare essere meno funzionale per le necessità del sistema e meno centrale per la sua credibilità ideologica: questo in proporzione al venir meno della funzione dei partiti, causa o effetto che sia.
Nei partiti avveniva la prima mediazione e il confronto tra bisogni e desideri che potessero confluire nella politica prima come senso della polis che come suo governo. Nei partiti veniva fatto balenare il fantasma della Norma del Vivere Migliore, oggi l’onere di far balenare quel fantasma che dia forma collettiva al desiderio è preso in carico dalla Rete, World (Word) Wide Web, la dimensione culturale in cui si esprime il sistema produzione- informazione- consumo.
Da diaframma intessuto di istanze diverse a semplice interfaccia che traduce ogni messaggio nella forma più adatta al buon funzionamento dello strumento stesso. In quella riverberazione elettronica ognuno può trovare ciò che cerca, se lo cerca: qualche conferma o appoggio per i suoi deliri o per le sue illusioni adolescenziali di autonomia critica.
Sempre il sistema del potere ha voluto far prevalere le suggestioni sul giudizio, ma oggi pare che riesca meglio in questo intento avendo fatto suo quell’illusorio diaframma tra il “discorso del Padrone” e gli altri discorsi che è andato a sostituire tutti gli altri diaframmi politici. La Rete, proposta come moderno Agorà, luogo di confronto in ordine a poter meglio giudicare sugli aspetti del mondo, è diventata strumento di penetrazione del pensiero unico ridotto alla sua essenza paradossale: resti indiscutibile che ogni affermazione sia discutibile salvo che poi qualcuno possa decidere.
Passando dal lato più culturale al lato più concretamente politico della modernità, il legame storico e ideale tra democrazia e istanze politiche definibili di sinistra, espresse in alcuni partiti che separatamente in diverse nazioni si ponevano lo scopo programmatico di una emancipazione del soggetto sociale debole, quello più alienato nella produzione e nel consumo, è surclassato dai conflitti identitari e particolaristi causati dalla concorrenza internazionale in un contesto globale consumista, una parodia dell’internazionalismo alla Trotzkj. Tutti rivoluzionari interclassisti, come voleva anche il primo Cristianesimo: ma, accantonate le virtù teologali della fede e della carità (la virtù più importante secondo S. Paolo), animati ognuno per sé unicamente dalla speranza (la virtù più stupida secondo Lacan) in un maggiore potere d’acquisto.
Solo la religione islamica sembra ancora in grado di occultare la tendenza generale.
Come si fa l’opposizione politica in un’epoca organica e allo stesso tempo molto efficiente nel non voler apparire tale? Dove trovare spazio politico nella rivoluzione tecnologica e post-cristiana che la civilizzazione della modernità (e del capitalismo) ha scelto di impersonare? In un mondo in cui tutti vogliono le stesse cose e nessuno vuole rinunciare a qualcosa neanche se ancora non la possiede? Con quali proposte credibili e articolate ci si può inserire in una dialettica di prosaica invidia sociale alimentata dalla minore disponibilità di denaro in proporzione al minor costo delle merci? Come rispondere all’inevitabilità che la ricchezza defluisca in proporzioni distributive dettate dalla logica economica di concorrenza tra nazioni sotto l’occhio sornione delle “multinazionali”? Quale alternativa lenta sarebbe in grado di interporsi sul versante di una maniacale corsa del desiderio metonimico?
Si dice: “Spostare i consumi dai beni materiali a quelli immateriali”, anche per ridurre l’impatto dell’industria sull’ambiente; ma quali godimenti simbolici saranno in grado di distrarre e dissuadere l’edonista immaginario sulla via della politica quando questa stessa mostra disprezzo per la cultura?
Ahimè, volontà e sagacia politica che tenga conto di tattica e strategia non basteranno. Non basteranno programmi saggiamente riformisti di politici amministratori meno intenti a lisciare il pelo ai loro elettori, né la credibilità di statisti che pensino più a lungo termine che alle elezioni più prossime e ai sondaggi. Viva Angela Merkel che fa eccezione tra i politici delle postdemocrazie parlamentari, quelle che coniugano la delega fiduciaria del suffragio universale con le lobbies in perenne agguato e i sondaggisti continuamente al lavoro. O tra i politici che si sono adeguati alla “civiltà dello spettacolo” e recitano talvolta in ruoli comici sul palcoscenico dell’attualità.
Nelle postdemocrazie viene a mancare la possibilità di digerire i paradigmi della politica, cosa che richiede un po’ di tempo, com’era nei partiti, luoghi deputati all’incontro tra comunicazione e ricezione, tra domanda e offerta politica da elaborare alla luce del senso e dei significati effettuali. Luoghi deputati ad allevare i politici di professione come anticorpi per tenere a bada i demagoghi che di tanto in tanto infettano la politica con il veleno dell’odio per la politica stessa.
Per dirigere il populismo basta la suggestione messianica delle teocrazie oppure alcune formule o idee-forza che fungano da catalizzatore di “tipi ideali” di weberiana memoria, slogans ben scelti, del genere “Dieu le veut”, o “ein Volk, ein Führer”, o “America first”. o “uno vale uno”.
Ce n’è per tutti i gusti, purché alla politica si sostituisca l’identità.
Il Comunismo si era già proposto efficacemente in questo senso, facendo propria con la filosofia di Marx e l’eloquenza di Lenin la potenza di una identità immaginaria. Il “materialismo storico”, che nell’opporsi alla metafisica fa il giro completo per ritrovarla alla fine del giro, aveva dalla sua l’aspetto di rivelazione che costituisce la specialità di una religione rispetto ogni altro discorso umano. Tutte le proposte rivoluzionarie si ammantarono sempre di qualche “mistica”, ma non raggiunsero quel grado di credibilità antropologica (e indiscutibilità tautologica) che nel comunismo suonò per l’operaio produttore pressappoco così: “Diventa quello che sei!”. Una formula dirompente per logica (tautologica) come le più dirompenti formule proposte da S. Paolo, ma, in linea con la fragilità logica dell’antica esortazione delfica di conoscere ciò che si è, il comunismo è stato sconfitto sì su un piano pratico, ma anche, ammesso che qualcuno fosse entusiasta di rappresentare la nuova umanità, sul piano della pura logica lacaniana: ogni illusione identitaria comporta delusione nel mondo dei significati. Dalle parole siamo parlati ma anche facilmente irrisi. Qual è il desiderio d’essere dell’operaio?
Bisognerebbe avere la forza dei primi padri della Chiesa e dei martiri cristiani per sorreggere imperterriti nel Reale, cioè nel corpo, usque ad finem e per qualche secolo, dei puri, se non semplici, significanti.
Il mondo cambia come cambiano le parole che lo sappiano descrivere per ciò che è nel suo sintomo irriducibile: l’innaturalità.
La fantasia un po’ delirante che possa essere la psicanalisi, con la sua mistica non tanto diversa se adattata all’analizzante, a proporsi in questi termini non è tal quale un delirio per un solo motivo: di fronte a sé ha trovato fin dall’inizio una resistenza strana, sproporzionata, perdurante, simile a quella che l’establishment imperiale e sacrale ha opposto al Cristianesimo e alla Chiesa per tre secoli fino quasi al Concilio di Nicea e simile a quella che la Chiesa ha opposto per tre secoli alla scienza tra Medioevo e modernità. Maggiore di quella che si è opposta al comunismo, temperata dalla bonaccia del socialismo, mentre il massimo di resistenza alla psicanalisi è rappresentato dagli psicologi e dagli psicoterapeuti.
Ma per fortuna non c’è stato uno psicanalista che abbia subito, solo per dirsi tale, un processo alla Galileo, con obbligo di abiura, oppure sia andato al martirio per difendere la dottrina o per eresia rispetto ad essa, così quella fantasia può restare tale, un po’ delirante e abbastanza inoffensiva.